Michael Mann è tra i pochi, grandi visionari che hanno saputo dare un senso a Hollywood anche dopo la definitiva mutazione di questa in altro – quando cioè Hollywood ha rinunciato al proprio tratto più distintivo in assoluto: quello di essere una fabbrica.

Nello specifico, Mann è stato il cineasta che, più di tutti, ha mostrato come, col passare dalla pellicola al digitale (e quindi dalla produzione di un oggetto da forgiare con la luce allo spaccio di dati), il nucleo più autentico di Hollywood rimaneva invariato. Anche col digitale, infatti, il romanticismo era ciò che muoveva la fabbrica. Il cuore, insomma, era ed è il motore del motore.

Con Ferrari, però, le cose si complicano, e si compiono estremizzandosi. Scippando un soggetto perfetto per Cronenberg (che infatti se ne era interessato a lungo), Mann intreccia il Ferrari industriale del 1957, quello alla vigilia di una Mille Miglia decisiva per il futuro della sua fabbrica, e il Ferrari privato, quello diviso tra la moglie che gli diede Dino (la cui morte nessun altro figlio potrebbe mai rimediare) e l’amante Lina, che gli diede un altro figlio in attesa di riconoscimento. Due figure femminili di forza inusitata e diametralmente opposte. La seconda è una donna a tutto tondo, illuminata soffusamente in ambienti paradossalmente più famigliari di quelli coniugali. La prima è, né più né meno, una macchina. Un’amministratrice ferocemente efficiente che non guarda in faccia a nessuno, neanche al marito o a sé stessa, che abita stanze spesso più buie di un garage.

Una è l’organico, l’altra l’inorganico. Scissione che il maschile non riesce a risolvere e che quindi viene proiettata sul femminile. Ferrari è ancora tutto dentro l’orizzonte della macchina: è l’istantanea di un momento di crisi, di “inceppo”, cui segue la rimessa in carreggiata. L’entropia, sprigionata dal meccanismo, viene meccanicamente riassorbita, la macchina continua a funzionare e funziona grazie alla propria strutturale disfunzione. Ma può farlo solo attraverso la morte. Ferrari è un monito a non cedere alla tentazione di guardare alla dicotomia organico-meccanico come a qualcosa di sostanzialmente diverso dalla co-implicazione tra organico e inorganico. La macchina riparte, il figlio illegittimo viene (condizionalmente, e in maniera “post-datata”: solo, cioè, a partire dalla morte della madre di Dino) riconosciuto, ma riparte solo grazie all’intreccio di fantasmi (tutti i personaggi vivono rivolgendo lo sguardo a ciò che hanno perso) che ha al proprio centro Dino. È lui, autentica obiezione (brevemente) vivente all’organico per via della distrofia che l’ha consumato, ad essere al centro del cuore – che a propria volta è al centro del motore.

Tale intreccio di fantasmi viene restituito plasticamente nella scena della Traviata al teatro Storchi, una delle due strepitose scene in montaggio parallelo che nel più ampio disegno strutturale del film hanno, coerentemente, altrettanta importanza delle (non meno strepitose) scene di corsa. Tutto il resto, come ci si aspetta da Mann, è la gestione coreografico-architettonica di personaggi integralmente, coscientemente dominati dalle passioni che li caratterizzano. Il contrasto tra le “scene madri” e il resto è ricercato: Ferrari, infatti, ci ricorda che la sintesi tra organico e inorganico, organico e meccanico, non è possibile (come non è possibile mettere d’accordo le due donne), perché i due poli sono già in partenza inseparabili. La loro inseparabilità, si chiama forma. O anche: stile – quello che Ferrari non ha bisogno di cercare come un Gianni Agnelli qualsiasi (sintesi incompiuta tra Ferrari e Ford), perché lo trova continuamente, dentro il funzionamento di un motore (“una cosa che funziona è automaticamente bella”, dice Enzo insegnando al figlio che parti interne più affusolate fanno scorrere l’acqua con maggiore velocità) come in un capitalismo finanziario che fa dipendere il futuro della concretissima, materialissima produzione industriale, dalla del tutto immateriale immagine mediatica che risulterà da un’eventuale vittoria del cavallino alla Mille Miglia.

La Jaguar corre per produrre, la Ferrari produce per correre. La Ferrari è insomma, direbbe Freud (e quindi Cronenberg), al di là del principio di piacere: il desiderio scompare diventando macchina, facendo cioè della mancanza intorno a cui ruota il desiderio un fine in se stesso. Agli antipodi rispetto all’Avvocato, Enzo Ferrari (assecondato dalla prova migliore di Adam Driver della sua carriera fino ad ora), non ricerca lo stile, ma l’incarnazione diretta, con la sua aria torva e incazzosa, perennemente insoddisfatta, quell’obiezione all’organico incarnata fin troppo letteralmente dal figlio Dino. Ogni fibra del suo essere, anche nei momenti più anodinamente quotidiani che informano lo splendido incipit, è informata dalla reazione disperatamente vitale, rabbiosamente malinconica, verso quel lutto. La memoria dell’inorganico, dentro l’impasto tra organico e meccanico, diventa letteralmente una ragione di vita.