Charles Augustus Howell, origini portoghesi di sangue (a quanto dice lui) parecchio blu, è un personaggio importante della Londra vittoriana. È un commerciante d’arte nelle cui mani passano le opere di, nientemeno, Dante Gabriel Rossetti (che ha strappato dall’influenza di Ruskin). Ma è anche amico degli indipendentisti italiani più turbolenti, che finanzia sottobanco indispettendo i francesi. Ricatta questo e quello, e non esita a riesumare la tomba di Lizzie, ex amante di Rossetti, per recuperare il libro di poesie che lui ha sepolto con lei.

L’ottimo The Worst Man in London (Rodrigo Areias) ha cura di conservare l’ambiguità del personaggio. Non si tratta, semplicemente, di un opportunista. Certo, quello che fa è dettato dalla convenienza personale, e da uno spietato, furbo pragmatismo quanto ai modi in cui ottenerla. Egli non è, però, un automa privo di qualunque lato umano, e financo di un idiosincratico e poco ortodosso senso dell’etica e dell’onore: è impossibile sancire dove questo finisca, e dove cominci invece il calcolatore. 

Verrebbe da dire che questa zona grigia, oggi, è assai familiare a qualunque operatore culturale contemporaneo, di cui in qualche modo Howell sarebbe una sorta di prototipo. Meno che mai questa zona grigia tra calcolo interessato e passione genuina, tra manipolazione e no, è estranea a chi opera nell’ambito dei festival cinematografici, nodi del tutto peculiari della più ampia circolazione del capitale globale. Ma la verità è che, ormai, nella strana fase del (post?-)capitalismo che stiamo attraversando, non c’è provincia del business, anche al di fuori dell’ambito artistico-culturale, che non risenta della scarsa distinguibilità tra la sfera umana e quella più propriamente affaristico-utilitaristica. Ce lo ripetono fino allo sfinimento un milione di serie Netflix tutte uguali. Solo che loro quelle due sfere tendono in ultima analisi a districarle in modi piattamente narrativi; The Worst Man in London, invece, rimane fedele all’opacità del loro compenetrarsi. Senza contare che, dalla dizione al comportamento, l’Howell di Areias è un londinese al 110%, ma rimane comunque un londinese atipico (è Arthur Conan Doyle ad averlo definito “l’uomo peggiore di Londra”); basta questo, insieme alla Londra ricostruita tutta a Oporto, a far sì che il film attiri a sé, senza il minimo bisogno di tematizzarle esplicitamente, una miriade di implicazioni geo-politico-culturali, circa i rapporti tra nord e sud, tra centro e margini dell’impero. 

Pur in parte impettito e inamidato come vuole la tradizione dei period drama, il tono di The Worst Man in London è anomalo, sottilmente reticente, conciso fino al mistero. Anomala è l’illuminazione, dominata da toni talvolta caldi, talvolta verdastri, in ogni caso poco naturalistici. Anomalo è anche un camerawork discreto ma mobilissimo, sinuoso e insinuante. Non è dunque con il rodatissimo canone delle grosse coproduzioni europee in costume che va misurato The Worst Man in London, ma semmai con un genere che si sta ancora cercando e che questo canone lo sta pian piano reinventando con soluzioni formali e contenutistiche anche parecchio disinvolte, nelle retrovie e in ordine sparso, con budget più contenuti, non di rado con coproduzioni tra paesi periferici che bypassano le un tempo inevitabili sinergie con Francia e/o Germania (p. es. il più ambizioso Il boemo, italo-ceco, anch’esso passato a Rotterdam nel 2023) e con una certa attenzione agli echi col presente.

È questo tipo di film che la sezione Big Screen Competition prova a mappare: prime mondiali di film che, in un modo o nell’altro, trascendono i confini tra cinema popolare e art house, e che, senza affatto rinunciare alla ricerca estetica, sono concepiti per arrivare al grande pubblico quello che, alla spicciolata o in massa a seconda soprattutto delle latitudini e delle longitudini, frequenta le sale. Un occhio di riguardo, chiaramente, è riservato ai film di genere. Per “genere”, però, e appunto come nel caso del film di Areias, non si intende quasi mai qui un framework monolitico e consolidato, bensì qualcosa di dinamico, qualcosa ancora da cristallizzare, o magari da reinventare.

Il cambogiano Tenement (Sokyou Chea e Inrasothythep Neth) guarda al J-Horror di una ventina di anni fa, integrandolo con gli autocoscienti risvolti geopolitici delle successive tendenze del genere annesso razzismo incluso: il Giappone dove è emigrata la protagonista è asettico e civile, gli abitanti del fatiscente palazzone di Phnom Penh dove torna dopo la morte della madre, e risalente all’era Khmer Rouge, sono brutti, sporchi e tribali. Più che il valore del film importa che sia vivo, e cioè che il suo atteggiamento verso il genere sia vitale anche se a questo genere, di linfa vitale, forse ormai ne rimane poca. Le transizioni tonali sono legnose; le parentesi soprannaturali, oniriche e più in generale orrorifiche, sono bolle gonfiate palesemente oltre il dovuto in termini di gestione drammaturgica, eppure non scoppiano mai: l’accumulo disordinato degli effetti tipici del genere, sarà anche narrativamente incoerente, ma per funzionare funziona. E che il trauma che riaffiora non sia precisamente identificabile ha il suo interesse: il regime Khmer Rouge, quasi totalmente assente e a malapena nominato in un solo dialogo, non sembra tanto l’origine del trauma, quanto l’occasione cui si dovette il riemergere, appena sotto la superficie politica iper-paterna, di un sostrato culturale tenacemente tribale e matriarcale in cui qualunque ruolo sociale è vano e dunque intercambiabile (vittime e carnefici in primis). Il trauma è dunque non ciò che è storicamente avvenuto, ma che sia avvenuto il poter accadere di qualunque cosa – il che è ben più difficilmente esorcizzabile. Protagonista assoluto è il palazzone di cui sopra, con i suoi balconi e corridoi, assai efficacemente utilizzati: non solo una riserva prevedibilmente inesauribile di spaventi, ma anche di spunti sociologici non banali circa la sua riduzione a slum. E anche a livello di valori produttivi più generali la tenuta è più che buona.

Yohanna è una suora che, all’indomani di un terremoto, cerca di rendersi utile negli slum indonesiani dove la condizione infantile è particolarmente dura, ma le sue ingenue buone intenzioni finiscono quasi solo per fare danni. Il regista Razka Robby Ertanto parte da un genere in odore di anacronismo: il poverty porn alla Brillante Mendoza ma moltiplicato per Garin Nugroho, per come la regia totalmente esteriore e descrittiva si rifrange in un ritratto indiretto dei personaggi. Che non sia più tempo di quel tipo di neo-neo-neorealismo, Ertanto ne appare ben cosciente: di quel genere prende i cascami ormai poco utilizzabili, e prova a farne una specie di upgrade. La cinepresa non traballa più per millantare immersione negli infernali ambienti degli informal settlements, ma è stabile quanto e più di una steadycam, e si muove continuamente in una coreografia controllatissima. Non c’è più bisogno, insomma, di dissimulare in maniera pseudo-documentaria l’altissimo grado di controllo da parte della regia sulla materia mostrata: l’occhio della cinepresa è quella di un narratore romanzesco onnisciente tardo-ottocentesco, capace tanto di osservazione fenomenologica degli ambienti reali quanto di tematizzare in maniera consapevole i limiti degli occhi e della coscienza che li osservano. Con un sapiente (e forse un po’ troppo artefatto) rimescolamento cronologico di passato, presente e futuro, questo cine-narratore giudica spietatamente le inadeguatezze della protagonista, ma al contempo si avvicina al modo in cui lei stessa si autogiudica, finendo per offrirne un ritratto benevolo, comprensivo, compassionevole, empatico. Tanto evidente è l’alto grado di controllo del racconto da parte di Ertanto, che indulge persino in elementi (i cavalli e le loro gare clandestine) che funzionano platealmente da mediazioni liriche tra la dimensione oggettiva della disamina sociologica delle dinamiche che contraddistinguono gli ambienti economicamente marginali in questione e quella soggettiva (il ritratto psicologico di Yohanna) che tanta centralità ha nel film.

Anche per il film vincitore della sezione, Old Bachelor (Oktay Baraheni), si può parlare di upgrade di un genere art house di corso ormai lungo. Padre tirannico ma sostanzialmente anziano bambinone mai cresciuto, violento, vizioso, drogato, e con più di un precedente penale; due figli che faticano a trovare le proprie strade, perché da lui ostacolate. Quindi vivono ancora con lui, a 30-40 anni. Madre ovviamente fuggita. Insomma: un padre che non è mai diventato davvero padre, e che quindi è in eterna, strisciante, morbosa competizione coi figli – soprattutto quando, al piano di sopra, arriva una nuova inquilina su cui sia il padre che il figlio maggiore buttano gli occhi. Il vecchio è un villain che (ed è un eufemismo) buca lo schermo, ma questo asset alla lunga finisce per essere un limite, perché concentrandosi così tanto su quello che è chiaramente un caso borderline titanicamente lontano dalla norma, la critica alle strutture patriarcali assai riconoscibilmente alla radice di Old Bachelor finisce per essere annacquata. Baraheni sfrutta in pieno il “lusso”, da tempo a disposizione del cinema iraniano, di innestarsi su una magistrale direzione dei dialoghi e delle performance attoriali per realizzare ritratti psicologici di ispirazione e di spessore squisitamente letterari. Si avverte lo sforzo attivo di avvicinare tutto ciò al grande pubblico, ma gli esiti sono diseguali: alquanto fuori posto quando Baraheni abusa del suo evidentissimo talento registico per alzare la temperatura del dramma, ma nettamente più felici quando le relazioni tra i personaggi nella loro dimensione più intima vengono scandagliate con una minuzia che si spinge fino agli inusuali confini della sitcom.

Ma per quanto riguarda i tentativi di conciliare il grande spettacolo di massa con ambizioni estetiche anche molto sostenute, la punta di diamante di questa Big Screen Competition (nonché, probabilmente, il capolavoro dell’intero festival) è Seven Seas Seven Hills (Ram). Da tempo, si sa, l’industria cinematografica del Tamil Nadu è tra le più fertili del subcontinente indiano, e dunque particolarmente adatta ad ospitare tentativi sapientemente eccentrici come questo. Libri interi si potrebbero scrivere su questo film che comincia come uno scorsesiano Fuori Orario politeista-immanentista (anziché giudaico-cristiano), con un giovane tamil immigrato a Dubai per lavorare che rientra in patria ma, sul treno, incontra un omone barbuto di 8000 anni che, con le buone ma soprattutto con le cattive, gli toglie via qualunque vana pretesa di gretto antropocentrismo e gli impone di aprirsi all’amore verso le mille forme dell’esistente, (fra l’altro) giurando di ucciderlo appena finirà la sacra pioggia che scroscia appena fuori perché ha maltrattato un topolino di passaggio. A furia di whisky mischiato a sangue e altri liquidi, tra i due si stabilirà qualche vicinanza, soprattutto quando l’omone gli rivelerà cosa ci sta a fare lì: è alla ricerca della donna amata, anche lei immortale, che incontra e perde regolarmente da millenni di anni. 

Tutta la prima parte, interamente ambientata negli angusti vagoni ferroviari, è un lungo, virtuosistico saggio su come si usa la cinepresa per costruire l’azione passo dopo passo e giocare così al gatto col topo (quello vero, oltre che quello metaforico): una captatio inevitabile affinché lo spettatore, identificandosi col giovane e con gli sballottamenti alla Raimi a cui è sottoposto, entri davvero nel film e si prepari alla follia di quanto lo attende da lì in poi, esplicitamente ispirata alla filosofia tamil per quanto intersecata, come da inveterata tradizione subcontinentale, con la mitologia hindu sotto le mentite spoglie dei suoi teatrini. Dopo questa iniziale affabulazione purissimamente cinematografica sul treno, sul filo di un racconto che corre a rotta di collo, il tempo si rallenta con l’incontro amoroso in flashback: un segmento di straordinaria bellezza lirico-coreografica, di onirica sospensione, che apre una parte centrale in cui, tra un flashback e l’altro, il ritmo subisce modulazioni vischiose e irregolari (mossa necessaria affinché l’attenzione scivoli sul contrasto tra i diversi ambienti e su come osmoticamente informano le azioni e gli esseri in essi ospitati), prima della entusiasmante accelerazione dell’ultima parte. Insomma: un’opera di incredibile inventiva e stratificazione intellettuale, ma che Ram ha cura di tessere tutt’intorno a un filo che lo spettatore è sempre messo nelle condizioni di seguire agevolmente.

In definitiva, nonostante l’esorbitante offerta quantitativa del festival di Rotterdam (più di 200 lungometraggi in una decina di giorni, più i corti, le installazioni, i talk e molto altro), la Big Screen Competition rimane una sezione da seguire con cura, inclusi gli occasionali titoli poco riusciti (p. es. Portrait of a Certain Orient di Marcelo Gomes, la classica maionese che non viene, per via della mancanza di amalgama tra le sue componenti), anche perché valida cartina al tornasole del più generale indirizzo che il festival, da qualche anno, sta cercando di perseguire. L’ultima cosa che vuole il festival di Rotterdam, soprattutto ultimamente, è ghettizzarsi, ovvero occupare quietamente la nicchia che le sarebbe riservata nella rete dei festival globali. Consapevole che l’esperienza festivaliera e il “regolare” consumo dei film in sala stanno per molti versi convergendo l’una verso l’altra, il festival di Rotterdam mantiene gli occhi ben aperti verso il cinema pensato per la sala (anche attraverso i canali variamente legati al circuito festivaliero). Verso, in particolare, quei film che prendono atto coscientemente che molte delle interfacce tradizionalmente impiegate per stabilire un contatto con il pubblico (tipicamente – ma non solo – i generi), anche e soprattutto quando sono (come non di rado ormai accade) consunte e senza più gran spinta propulsiva interna, sono l’occasione per poter essere reinventate, o comunque per poterne esplorare ancora i possibili usi, virtualmente inesauribili come inesauribile è lo spettro di possibili soluzioni estetiche da poter mobilitare. Il pubblico apprezza: una ventina di sale quasi sempre piene, anche a orari improbabili, popolate non solo dagli addetti ai lavori ma anche dal pubblico cittadino. In poco più di dieci giorni, più di 250000 presenze.