Certe cose non coincidono con la somma delle loro parti. Una casa abitata per anni non è un insieme di componenti architettoniche, ma un tutto unico e inscindibile, tenuto insieme delle stratificazioni immateriali degli affetti, dei ricordi, delle esperienze di chi ci ha vissuto. Perciò, quando Mahboube, la protagonista di Me, Maryam, The Children and 26 Others (Farshad Hashemi) affitta il suo appartamento a una produzione che vuole girarci un film, rimane perplessa davanti al continuo smontare, ripitturare, riarredare da parte della crew. È per lei che la casa è un tutto unico e inscindibile; il suo torvo aggirarsi nelle stanze, il suo periodico rintanarsi in un cantuccio appena può mentre gli altri si affannano a fare della sua dimora un set, non sono che reazioni difensive davanti al sistematico disgregarsi e parcellizzarsi della dimensione sintetica della sua abitazione, accessibile solo a lei e al suo sentire.

Sintesi, analisi. Una dicotomia filosofica che è, forse, la più importante in assoluto di più di un secolo di riflessioni sul cinema. Moltissimi ci sono passati: da Eisenstein a Balazs, da Rivette a Cottafavi. Ancora oggi, i festival sono (o perlomeno dovrebbero essere) tenuti a cercare e valorizzare quei film che denotano una dimensione sintetica e non solo una analitica; non, cioè, quei film che si riducono al loro pitch, a una indiscriminata sommatoria delle ragioni di interesse sulla carta di un dato progetto, ma piuttosto quelli in cui tali aspetti si coagulano insieme grazie a un’organicità la cui coerenza interna non è astratta e meccanica, ma concreta, singolare, dinamica. Un tutto, insomma, che eccede la somma delle singole parti.

Tra i secondi, fortunatamente, c’è appunto Me, Maryam . È innanzitutto con un accorto uso degli spazi e delle risorse della mise en scène (inquadrature, movimenti, profondità di campo…) che Hashemi restituisce tanto il pulviscolare, affollato caos delle riprese, quanto lo spaesamento della padrona di casa, e con essi dunque il balletto dialettico tra la sintesi (Mahboube) e l’analisi (la crew), prima che gradualmente questo approccio formalista lasci il passo a un approccio psicologizzante più facilmente leggibile. La lavorazione del film diventa infatti un’occasione, per Mahboube, di ripensare la propria tendenza alla solitudine e all’autoisolamento, e poco a poco Me, Maryam acquista un calore umano e una felicità nelle dinamiche di gruppo che le prime scene non facevano presagire. 

Naturalmente, non tutte le opere presentate nella Tiger Competition della cinquantatreesima edizione del festival di Rotterdam hanno questa solidità. Jaydon Martin (Flathead, Premio Speciale della Giuria), ricostruendo semidocumentaristicamente l’Australia profonda a partire da due campioni rappresentativi (un anziano bianco con alle spalle esperienze numerose e spesso durissime, e un giovane cinese della seconda generazione che si affaccia sul vuoto, venduto il ristorante dei genitori), si limita a una più che buona abilità di storyboarder in bianco e nero, rimanendo purtroppo al di qua di qualunque sintonia coi propri protagonisti e perdendo così per strada quasi tutta la loro intensità potenziale. Nel ben più riuscito Praia Formosa (reverie che oscilla tra passato e presente per fare riaffiorare le complesse origini multirazziali del Brasile), il talentuoso occhio della regista Julia de Simone è sensibile alle peculiarità di Rio de Janeiro (negli esterni e, soprattutto, negli interni), ma padroneggia in modo troppo discontinuo e imperfetto la stilizzazione ieratica, teatral-letteraria che cerca di imprimere alla recitazione. All’inizio di Under a Blue Sun (Daniel Mann) le incandescenti, contraddittorie implicazioni dell’uso, nel terzo Rambo, del deserto israeliano come mock-Afghanistan vengono esplorate con grande intelligenza – non solo geograficamente, ma sulle immagini stesse del film con Stallone. Peccato che queste vengano quasi completamente accantonate nella seconda parte, per ripiegare invece sulla più facile delle scorciatoie: un reportage documentario sulle “verità nascoste” di quei luoghi, che la finzione cinematografica avrebbe occultato. 

Sul versante “film-saggio geopolitico”, assai più convincente risulta sr (Lea Hartlaub), cristallino e labirintico zigzag ai quattro angoli del pianeta seguendo la scia di un significante che garantirebbe un accesso privilegiato all’ampio spettro di forme connettive (dal semplice scambio commercial-culturale alla sopraffazione imperialista, alle tensioni antagoniste contro quest’ultima) che hanno innervato gli ultimi secoli e millenni di globalizzazione: l’immagine e il corpo delle giraffe. Pur nella riconoscibile prevalenza di totali fissi e voce over, e grazie non da ultimo all’uso dell’immagine dell’animale come rima figurativa sempre uguale e sempre diversa all’interno dell’inquadratura, dopo ogni manciata di minuti Hartlaub trova sistematicamente il modo di far prendere tanto alla forma quanto al contenuto direzioni che fin lì non ci saremmo aspettati, deviando da quello che ogni volta credevamo fosse il pattern dominante dell’opera. Così, il filo del discorso rimane aperto alla complessità, evitando di essere stucchevolmente programmatico.

È ciò che anche Dmytro Moiseiev riesce a evitare, adattando il romanzo sulla guerra nel Donbass Grey Bees di Andrey Kurkov (2018). Date le circostanze, il cinema ucraino non può non tenere le maglie ideologiche piuttosto larghe; spostando al gennaio 2022 queste tranches de vie di due anziani emarginati della “zona grigia” della regione contesa, che ne hanno più che abbastanza di entrambe le parti in conflitto e vorrebbero solo vivere tranquillamente, Moiseiev mantiene un cauto equilibrio che non vacilla nemmeno quando l’intervento russo è alle porte, in un finale volutamente opaco e ambiguo. Umanesimo sanamente vecchio stampo, che guarda con premura e sollecitudine alle fragilità dei nostri simili al di là delle appartenenze identitarie, e che si manifesta, più ancora che attraverso le wasteland dei paesaggi e le relazioni tra i personaggi (le une e le altre ridotte a poche ma efficaci pennellate senza incappare in schematismi di sorta), nel notevolissimo lavoro con la luce, con gli interni e i loro arredamenti. 

Tornando a Me, Maryam, c’è anche un’altra ragione che lo rende particolarmente emblematico di questa Tiger Competition. Una tendenza particolarmente virtuosa delle opere prime e seconde (cui appunto questo concorso è riservato) è mettere a frutto l’esiguità dei budget, e dunque la relativamente minore onerosità degli imperativi commerciali, non tanto per fare qualcosa di diverso dal mainstream, quanto piuttosto per ricalcare da presso il mainstream, impratichirsi con le sue dinamiche fondamentali, conservando però la consapevolezza di potersi permettere cose che il mainstream non si può permettere. Hashemi segue pedissequamente una certa tradizione del film iraniano da esportazione “alla Kiarostami” (le relazioni umane che si tessono durante le riprese del film-nel-film, eccetera), ma riduce al minimo le connotazioni geografiche e culturali (tutto si svolge dentro il medesimo appartamento piccolo-borghese, che potrebbe trovarsi ovunque), scartando a priori qualunque ghettizzazione orientalista. 

Rei (Tanaka Toshihiko) invece, meritatissimo e splendidamente recitato Tiger Award, guarda diligentemente alle network narrative di un Arriaga o di un Hamaguchi, con numero ristretto di personaggi (cinque-sei) ad archi ingegnosamente intrecciati. Mentre, però, quel cinema “middlebrow” non può verosimilmente esimersi dal mitigare il carattere multicentrico del collage grazie a vistose esche drammaturgiche, senza le quali il pubblico rischierebbe troppo di perdersi, Tanaka evita i momenti drammaturgicamente forti riducendoli tutti a false piste, e lasciando invece a ognuno dei frammenti lo spazio per respirare autonomamente, senza calcare troppo la mano sui loro nessi (nessun personaggio vive se non della luce riflessa attraverso gli altri) ma lasciando che la ragnatela tra loro si tessa da sola. Con immacolata linearità, la stessa quadra cercata da Hamaguchi (il comporsi reciproco e complementare tra comunicazione e incomunicabilità) viene trovata lasciando sfogliare semplicemente uno dopo l’altro i pezzi del puzzle, senza farsi ossessionare dalla perfezione geometrica degli incastri.

A suo modo, è una network narrative anche She Fell to Earth, solo che metà dei personaggi sono corpi celesti intrappolati in pietre che cadono sulla terra dallo spazio profondo, e le cui vibrazioni possono essere percepite esclusivamente grazie ad avanzate apparecchiature acustiche. Pazzoide, vulcanico secondo lungometraggio (a 17 anni dall’esordio) dell’hongkonghese Susie Au, che ha già passato la sessantina, che è attiva su molti fronti, soprattutto quello dei video musicali, e che proprio per questo sa benissimo che l’estetica visuale post-cinematografica più à la page non è più quella videomusicale, ma quella dei droni: mobilissima, disincarnata ma non completamente scevra da antropomorfismo. È sostanzialmente una fusione di queste due estetiche che informa l’alquanto aggressivo, montatissimo stile registico di She Fell to Earth: una specie di Antonio Rezza che va a lezione di filmmaking da Tony Scott, in felice contrasto con la compattezza del cast e delle location (un dimesso, anonimo caseggiato popolare). 

Con storie come quella di She Fell to Earth, che sembrano ridursi a una combinatoria di elementi piena di idee, futile e libera, inventiva e giocosa, il concorso di Rotterdam dimostra, già da qualche anno, di essere assai ricettivo verso ciò che possa suggerire come si ponga il cinema dentro la più ampia riprogrammazione mediatica dei nostri sensi e del nostro cervello – verso insomma ciò che possa indicare una qualche risposta all’interrogativo cruciale “che ne è dello storytelling cinematografico al tempo dell’ADHD di massa?”. Ogni volta ci sembra di essere arrivati al centro del racconto, e tutto sembra schiacciarsi sul presente che abbiamo davanti, ma ogni volta questo centro viene sviluppato a tutta velocità fino all’esplosione prima di essere così catapultati in un altro centro. Un rapidissimo mulinare spiraliforme: poche componenti di base che ritornano di continuo, ogni volta anagrammate, riconfigurate o riposizionate in modo diverso, trascinate da un movimento travolgente ma pochissimo lineare, e che anzi sembra sempre tornare al punto di partenza, o quantomeno dove siamo già stati. 

Un analogo, folle vorticare caratterizza Kiss Wagon (Premio Speciale della Giuria); il suo autore Midhun Murali (chiaramente un pazzo, in senso buono) ha lavorato un po’ nella marina mercantile (sic) prima di realizzare, tutto da solo, tre ore di animazione in bianco e nero su un immaginario regno distopico (Mountland), la specie di fondamentalismo religioso che lo regge, e l’immancabile contropotere. Da subito, il filo si ingarbuglia al di là di qualunque recuperabilità, ma non possiamo non seguirlo per tutte e tre le ore, trascinati da un ritmo inarrestabile retto sul continuo assemblarsi e dis-assemblarsi dei molteplici ma nitidamente distinti strati che compongono ognuna delle immagini animate (silhouette nere, figurine grafiche e/o fotorealistiche, nuvole, piogge e altri elementi atmosferici), che si sfogliano secondo una logica che non è più quella del montaggio, ma forse nemmeno quella del polimorfismo digitale. Una delirante, quasi impossibile da seguire ma godibilissima allegoria su quell’arma a doppio taglio che è il cinema: illusione e demistificazione. 

È stata l’animazione, in ultima analisi, il piatto forte di questa Tiger Competition. Lo conferma Reise der Schatten dell’artista visivo Yves Netzhammer. Un trip visionario che si serve di una computer grafica del tutto elementare, quasi primitiva, fatta di volumi monocromatici rudimentalmente tridimensionali e ombreggiati. Una parabola ermetica, fatta di mille simboli impronunciabili ma oscuramente famigliari. Un’immersione in quell’abisso tra la sensazione e il senso, tra la mera estensione corporea e la tessitura materiale, nel quale ogni forma di contatto è traumatica (in primis il contatto per eccellenza: quello sessuale), e nel quale perciò abbondano sangue e mutilazioni. Abbonda in particolare quel quintessenziale agente di mutilazioni (o, psicanaliticamente, castrazioni) che è il linguaggio: nessuna parola viene mai proferita, ma il filo d’Arianna che ci conduce da un capo all’altro della parabola è, dettaglio chiave, un libro aperto.

Viceversa, Moses (Jenni Luhta e Lauri Luhta) è piano di parola parlata, ma il suo centro, forse, non è quello. Per la maggior parte del film udiamo in voice over lunghi stralci de L’uomo Mosè e la religione monoteistica, ma non è solo una donna (Jenni Luhta) vestita da Sigmund Freud, inquadrata da varie angolazioni, quella che vediamo nel frattempo. Vediamo anche altro: molte immagini sacre, Mosè (Lauri Luhta), footage di repertorio. Così, mentre la parola di Freud individua nel monoteismo ebraico una dimensione rimossa che poi verrà portata alla luce e sfruttata da un certo cristianesimo paolino, i Luhta sembrano voler accompagnare questa parola da ciò che questa individuazione freudiana a propria volta rimuove. Una dimensione per così dire inconscia del testo di Freud che sono invece le immagini a manifestare: il gioco di specchi tra Freud stesso e Mosè, il femminile come elemento centrale perché rimosso, ma anche il cristianesimo ortodosso che, infatti, incornicia il film. Attraverso questa tensione tra quello specifico discorso e la sua dimensione inconscia si fa strada un’altra tensione, prettamente figurativa, tra lo spazio tridimensionale del discorso parlato, della cinepresa che “gira intorno” allo psicanalista, e quello bidimensionale delle immagini.

Che dunque, in virtù di questa tensione tra due e tre dimensioni, anche Moses sia, alla fin fine, un film di animazione?