La strategia di rappresentazione che descrivevo nel primo dei miei due dispacci berlinesi solleva questioni che obbligano, credo, a qualche riflessione ulteriore.

Al di là degli esiti estetici particolari, la premessa che mi è sembrata di vedere in opera nei film di Piñeiro e Gil [1] si presenza in sostanza come uno scartamento, un passo a lato che permette a questi e altri cineasti di ridurre il campo del discorso. La riduzione del campo, a sua volta, funziona come strategia di ancoraggio; essa permette al cinema di sfuggire all’infinita espansione orizzontale (che forse sarebbe meglio chiamare deriva) dell’universo mediale contemporaneo.

Questo scartamento a priori ha però un prezzo: la rimozione della storia, o meglio di una poetica storicistica forte. Sia che vadano in direzione di un umanesimo privato, sia che si appiglino a una cultura nazionale, questi film sfuggono alla deriva perché tracciano un perimetro chiuso, all’interno del quale rivendicano al cinema una verticalità (penso alla tradizione letteraria) e uno spazio d’azione. Niente di male: ma per chi, come me, è ancora ancorato all’idea di una cinematografia (e di una critica) in rapporto vitale e diretto con il contemporaneo, il problema permane di come arginare la deriva. 

In questo senso, l’esperienza della Berlinale mi offre il destro per tracciare i contorni di una seconda strategia di messa in quadro. Già da alcuni anni mi è parso di osservare quella che ho chiamato una poetica stratigrafica: il tentativo cioè di costruire un effetto di complessità (storica, ecologica e linguistica) attraverso la messa in rapporto di temporalità sedimentate. Questo approccio ha prodotto esiti diversi: da pellicole che mescolano un registro stilistico lento (montaggio rarefatto, inquadrature statiche) alla quotidianità dell’osservazione sociologica (penso a Osmosis di Zhou Tao), ad altre che inquadrano l’agire umano da una prospettiva cosmica, con effetti stilistici che mescolano straniamento e surrealtà (si potrebbe citare l’ultimo Weerasethakul).  

Pepe, presentato nel concorso principale, è un esempio di questo ultimo caso. L’inselvatichimento accidentale di un clan di ippopotami, contrabbandati in Colombia da Pablo Escobar, il successivo impatto sulla popolazione locale e la risposta delle autorità offrono al regista dominicano Nelson Carlo De Los Santos Arias lo spunto per una pellicola che accosta piani di senso e strategie discorsive dissonanti, tanto da costringere lo spettatore a una continua rincorsa.

Il film si apre su un’inquadratura a fondo nero. Voci fuoricampo di soldati in agguato si domandano quale sia il verso degli ippopotami. D’un tratto un faro riflettore abbaglia la macchina da presa: è l’inizio dell’assalto. Seguono rumori di spari. Qui subentra una seconda voce fuori campo: quella dell’ippopotamo protagonista, Pepe. In una vertiginosa inquadratura a piombo che mostra, dall’alto, fiumi e savana, lo ascoltiamo parlare da un imprecisato aldilà cosmico mentre si interroga sulle parole che usa, o meglio, sulla capacità di queste parole di penetrare il senso della sua esistenza terrena.

Come si vede, fin dalla sequenza iniziale lo spettatore si ritrova depistato, costretto, come dicevo, alla rincorsa: gli appigli drammaturgici convenzionali (l’agguato) sono cortocircuitati da gesti di sapore situazionista (i discorsi incongrui dei soldati; la focalizzazione doppiamente impossibile sull’animale morto) e re-inquadrati in cornici narrative e temporali diverse. Di più: già da questa prima sequenza, Santos Arias pone sul piatto l’idea di un linguaggio in affanno. Tanto il chiacchiericcio al buio dei soldati quanto il flusso di coscienza di Pepe suggeriscono l’idea di una parola in avvitamento su sé stessa: un’impasse di senso, interrotta dal subitaneo esplodere dalla violenza. L’effetto di spaesamento pare ulteriormente rafforzato dalla giustapposizione casuale di lingue diverse: Pepe l’ippopotamo mescola lo spagnolo, il mbukushu, il tedesco e l’afrikaans.

All’impasse e allo spaesamento Santos Arias oppone tuttavia delle contro-strategie, che incoraggiano invece lo spettatore a un sottile gioco di ricomposizione. Andando oltre la babele iniziale, per esempio, la commistione di lingue finisce col suggerire tacitamente l’intricata rete delle dinamiche coloniali e di sfruttamento che ha reso possibile la vicenda di Pepe. L’afrikaans e il mbukushu rimandano alle terre avite; lo spagnolo è l’idioma dei colonizzatori; il tedesco è quello dei turisti ai safari. La stessa strategia che esprime l’impasse permette anche di dipanarne le fila: il plurilinguismo, qui, è insieme deriva e bussola.

E ancora: nel film sono presenti segmenti di sapore quasi etnografico, in cui Santos Arias offre uno spaccato della vita dei villaggi rivieraschi sul fiume Magdalena, e drammatizza la reazione dei locali all’insediamento di Pepe nell’ecosistema locale. In questi segmenti la pellicola assume una fisionomia drammaturgica più tradizionale. Per alcuni critici (vedi ad esempio Marc van de Klashorst o Ola Salwa) il profilarsi di una narrazione più riconoscibile, con la vicenda del barcarolo Candelario e dei suoi guai coniugali, costituisce un tradimento dell’esuberanza stilistica del film.

A me sembra invece che proprio nella giustapposizione di registri narrativi e stilistici dissonanti Pepe riesca felicemente a trovare una messa in quadro che, senza semplificare o ignorare la sostanza della sua vicenda, riesce a riannodare le fila che ne determinano i contorni storici: lo sfruttamento coloniale, la violenza dei rapporti di potere, le ricadute ecologiche e financo le minuzie private (la vicenda di Candelario, appunto, o le gare di bellezza a cui sua moglie prende parte come truccatrice). La maglia resta slabbrata, certo: ma alla fine tutto si tiene. E non è cosa da poco. 

Soprattutto perché Santos Arias non si ferma qui. Al plurilinguismo, all’osservazione etnografica e allo spaesamento situazionista Pepe aggiunge elementi di montaggio eterogenei, come segmenti d’archivio (la cattura di Escobar) e frammenti animati (un richiamo a The Peter Potamus Show di Hanna e Barbera), in cui riemergono tanto la figura dell’ippopotamo quanto il filo rosso della violenza, trasfigurate e transcodificate nella contaminazione tra i media. Attraverso questi elementi il film arriva così a lambire un piano mediale più allargato, ri-significando quei meccanismi di deriva intermediale da cui sono partito come parte di una dinamica cosmica e storica senz’altro difficile da dipanare, ma, da ultimo, rappresentabile. 

Quest’ultimo tassello mi porta a parlare di un altro film, Through the Graves the Wind is Blowing, presentato nella sezione Encounters. Travis Wilkerson è un cineasta americano che si muove nell’ambito del film-saggio di impronta militante. I suoi sono film di montaggio, di piglio apodittico, ritmo sincopato e spesso incalzante, costruiti attraverso la combinazione di materiali d’archivio e l’interpellazione diretta. 

Through the Graves si propone di primo acchito come una sorta di film ombra. Nella sequenza iniziale (un omaggio al regista jugoslavo Želimir Žilnik) Wilkerson si presenta direttamente agli spettatori, dichiara di aver voluto raccontare la ‘situazione in ex Jugoslavia’, e ammette il proprio fallimento. Anche Wilkerson quindi parte da un’impasse. Anzi, dalla stessa impasse: l’impasse del racconto cinematografico di fronte alla complessità intrattabile di una storia (in questo caso, la Jugoslavia) che mescola troppi piani diversi. 

E come Santos Arias, anche Wilkerson risponde a questa sfida attraverso una messa in quadro che parte dall’impasse per suggerire, attraverso l’impasse, una possibile tracciatura. A fare da filo conduttore (da ippopotamo, se volete) è Ivan Peric, impassibile detective croato con un passato da breakdancer, incaricato di far luce su una serie inverosimile di delitti. Vittime di questi ammazzamenti sono turisti – per lo più italiani di nome Fabio – dalla cui dipartita né la polizia né la politica locale paiono particolarmente turbate. Lentamente, sullo sfondo di questa vicenda surreale e particolare, si squaderna uno scenario collettivo di rancore represso, fascismo risorgente, sfruttamento e violenza sedimentata.

Lo stile di Wilkerson resta frammentario, aforistico, aneddotico, ed è soltanto alla fine che il quadro d’insieme assume un profilo leggibile. Con un piccolo colpo di teatro, il regista rivela l’incastro: il punto di contatto tra la memoria vissuta (il passato di Ivan), la storia collettiva (il fascismo) e il film stesso come gesto cinematografico. Di fronte al fallimento iniziale, Through the Graves si offre cioè come una proposta di lettura, imperfetta e parziale, ma capace di legare insieme piani e temporalità distanti.  

Va detto che nel suo insieme, Through the Graves è meno riuscito di altri film del regista, come Machine Gun or Typewriter? del 2015, in parte perché la necessità di Wilkerson di trovare un punto di caduta militante (leggi: antifascista) non sempre arriva a decifrare il groviglio di sociologia e politica in cui si addentra il film. Ma ciò che mi sembra importante è il modo in cui il regista si sforza comunque di riannodare insieme punti di vista, piani narrativi, sedimenti audiovisivi, e soprattutto di includere il film stesso in questo lavoro di riarticolazione (come quando la sua voce fuori campo confessa apertamente di aver fatto fatica a trovare una messa in quadro adeguata per certe sequenze).

Il fine ultimo, insomma (soprattutto per Wilkerson, ma credo si possa estendere il discorso anche a Santos Arias) non è tanto risolvere la complessità, o nemmeno fermare la deriva. Si tratta piuttosto di provare a navigarla. Triangolare la propria posizione in termini storici, morali e politici: che poi è l’unico modo di prendere una posizione.

[1] Ma volendo citare altri titoli della selezione berlinese si potrebbe includere anche Hong, Orso d’argento con A Traveler’s Needs, il cui microcosmo poetico funziona in modo analogo.