In un clima di discussa incertezza sulla direzione del cinema italiano, Luca Ferri si mette da sempre a giocare con il dispositivo, assentandosi e annullandosi dal suo Ludendo docet, preferendo una partita a carte con l’oste della porta accanto invece che essere presente sul set. Non è che un’apparenza: l’assenza di Ferri è talmente potente da avere l’effetto opposto, ingloba tutti i 70 minuti di piano-sequenza portati sullo schermo, un’assenza che diventa tutto e oltre, un burattinaio che tira le fila delle sue marionette.

Una chiara risposta, che però non si ferma certo qui. Un “esperimento moderno”, così è definito il film dalle marionette con il loro bel e comico dialetto bergamasco all’apertura del sipario, che attraverso la vita e la cultura del critico cinematografico Domenico Monetti percorre un viaggio tra morte, sesso e alcol. Fil rouge il sommerso italiano di autori quali Valerio Zurlini, Salvatore Samperi e Augusto Tretti, per citarne alcuni. Un monologo costante, un narcisismo tragico, interrotto da sporadici controcampi realizzati da Luca Sorgato, collaboratore di Ferri, i quali diventano ancor più significativi nel ruolo di detronizzare il regista. E proprio il termine “ruolo” è uno dei punti chiave dell’opera, con un regista che si fa alter-ego di quel critico che ha posto di fronte alla macchina da presa, quasi a sodomizzarlo e a sviscerarlo in un gioco di inversione, ma anche unione e intercambiabilità, dei ruoli canonici di “regista” e “critico”, all’insegna di quel detto latino, “castigat ridendo mores”.

Un invito a riflettere su delle figure al giorno d’oggi sempre più dicotomiche e che forse beneficerebbero di un maggiore connubio, come viene egregiamente mostrato in questo film, che in realtà è un gioco scherzoso, complice la graduale perdita di lucidità di Monetti per via delle due bottiglie di vino che pian piano entrano in circolo nel suo corpo, e che porteranno, in un finale dolceamaro, a mostrare un’umanità anche in un ruolo spesso visto come cinico, freddo e distaccato. Una costruzione che porta a ribadire la fragilità non solo umana, ma anche dell’opera stessa, con un’autodistruttività appoggiata all’uscio e pronta a intervenire, in un circolo che racchiude l’interezza del cinema, che altro non è se non un mezzo per giocare con il reale. [Davide Rostellato]

ll re fanciullo

Il re fanciullo di Alessandra Lancellotti è un documentario ambientato a Rivara, nel cuore del Canavese.

È difficile definire un soggetto unico della storia che viene presentata. Viene raccontata l’affascinante vita di Franz Paludetto, gallerista d’arte che, dagli ultimi decenni del secolo scorso, trovò nel Castello di Rivara il luogo ideale per le sue attività, rendendolo un polo d’incontro affermato per artisti contemporanei. Ma si parla anche della storia del castello stesso, già polo artistico nell’800 e sede della scuola di Rivara, circolo di pittori paesaggisti alla quale prese parte anche l’architetto portoghese Alfredo D’Andrade. Indirettamente si viene a contatto anche con parte della vita della regista, condivisa con Franz durante i dieci anni in cui ha raccolto le testimonianze audiovisive per costruire il documentario.

La realizzazione ha comportato un importante lavoro archivistico, che vede come risultato un’alternanza continua di formati che immergono in una realtà storica lunga e complessa, in cui si evolve il rapporto tra il territorio e il panorama artistico qui sviluppatosi. Si passa dal paesaggismo en plein air alle avanguardie del secondo dopoguerra, dove la realtà operaia diventa il soggetto di opere di sovversione. Il castello, in questi 150 anni, è stato luogo di perenne confronto, scoperta, sperimentazione e incontro, dando spazio e opportunità a realtà artistiche emergenti e innovative.

In questa cornice si inserisce il lavoro della regista: un’artista che alterna formati, scomponendo più storie e ricombinandole tra loro, in un’ottica di arte mai conciliante, in linea con quanto amato e promosso da Franz durante i suoi anni di lavoro. Colpisce come sia stata inserita nel montaggio anche la celebre carrellata del Weltgenie di Alberto Signetto, girata negli anni ‘80 a Torino in un Lingotto ancora industriale, pre-riqualificazione, dove la regista aggiunge una voce narrante che coglie l’essenza dell’avanguardia artistica a tema industriale tipica di quegli anni.

Completamente condizionato dalla natura di repertorio di gran parte del montaggio, anche il materiale girato viene percepito e di fatto diventa materiale d’archivio. Il formato utilizzato è un 16mm su pellicola scaduta, girato diversi anni prima del montaggio e quindi ben integrato con l’estetica “di altri tempi” dell’intera opera. In particolare, lo scuro granoso degli interni bui del castello a inizio film genera un senso di inquietudine e cupezza che rimanda alla decadenza e all’abbandono di un luogo in cui il tanto che è successo in passato rafforza ulteriormente la desolazione di oggi, insita di una realtà scomparsa.[Ignazio Ligani]