Song of all ends

Si apre con un invito allo sguardo Song of All Ends, il film documentario di Giovanni C. Lorusso presentato nel concorso Gabbiano della quarantaduesima edizione del Bellaria Film Festival. Questo invito, che spinge i nostri occhi a guardare oltre il buio della notte (o della vita), è racchiuso nei versi di Jean De Sponde. È un uomo anziano a recitarli, mentre il movimento registico alterna il primo piano del suo viso a una inquadratura fissa del campo profughi di Shatila, a Beirut. Al suo interno, come un nucleo da cui ha origine una luce frammentata, la narrazione si concentra sulla famiglia Alhaddad e sulla quotidianità dei suoi membri.

Al centro del microcosmo, però, c’è un corpo che si sottrae a quello stesso sguardo, un posto vacante che infesterà l’ambiente familiare.

Incorniciate dall’utilizzo fotografico del bianco e nero, le immagini di Lorusso restituiscono un progressivo senso di vicinanza rispettosa, unendo il tempo del racconto visivo alle semplici azioni dei personaggi, per ampliarne il significato. A pesare maggiormente dunque, non sarà tanto una narrazione politico-didascalica sul campo di Shatila, quanto un’estetica del pragmatismo che riconduce a un evento ben preciso. Esso aleggia nella vita a Shatila come un’ombra, creando un senso di attesa infinita che non può essere colmato, ma solo ripreso. Affidato rispettosamente alla staticità dell’immagine fotografica che, contrapposta al movimento di un certo cinema del reale, accresce l’approccio del racconto documentario.

Il fatto storico da cui si parte è l’esplosione del porto di Beirut nell’agosto del 2020, una detonazione che impregna il tessuto delle immagini e che, come tale, le sfalda dall’interno. Lorusso affida alle sue foto, scattate nel campo pochi giorni dopo l’esplosione, il compito di raccontare l’evento e le sue conseguenze. Le fotografie unite al lavoro di montaggio creano uno storytelling documentario-visuale che, pur riconducendo alla realtà concreta, diventano fumose e perdono di nitidezza. A stagliarsi nel mezzo del racconto fotografico, come un filo rosso destinato a comparire più volte, non è che un orsetto di peluche diviso dalla sua proprietaria: Houda, la più piccola della famiglia Alhaddad. Il corpo mancante.

Il fantasma della morte fa irruzione con prepotenza nel racconto di Lorusso, e tuttavia ne resta fuori, affidato alla dimensione del sogno che, resa esplicita dalle sequenze notturne, divide le giornate della famiglia. Non è un caso che l’utilizzo del colore si inserisca nel documentario in segmenti di sequenze che diventano visioni collettive del microcosmo familiare. Visioni che infestano l’ambiente, creando solo l’illusione di una pienezza che si scontra apertamente con la realtà nel campo di Shatila.

La dimensione diurna, che appartiene invece al realismo del documentario, mostra un altro spettro che si aggira attaccandosi alla vita dei profughi nel campo. È la guerra che accade intorno, una guerra reale che influisce nel privato delle persone e, diventando elemento performativo nel film, si lega alla famiglia Alhaddad per denunciare la perdita. Essa è affidata ai gesti quasi mimici dei giovani membri della famiglia, che vengono compiuti come per gioco. A testimonianza di ciò vi è il lavoro sul sonoro, che registra il brusio scalpitante della vita a Beirut rimanendo però fuori campo, come un pericolo lontano dalle immagini.

Lo stile registico di Lorusso in Song of All Ends restituisce con delicatezza una commistione tra reale e immaginario, creando un “metadato” cinematografico che rende l’approccio al documentario un archivio per le immagini. Così da contenere –  e proteggere – una memoria fantasmatica appartenente a un tempo altro, un passato cristallizzato e doloroso che, nella forza stessa dell’esperienza fotografica\filmica, può condurre alla ricerca di un nuovo inizio. Un altro viaggio ancora da raccontare. [Stefania Chiappetta]

Horkos

Siamo in Sardegna, nella fabbrica di Portovesme. Fabrizio si aggira ritrovando i luoghi e le persone della sua infanzia, come il suo amico Andrea, rimasto al villaggio nel quale ha imparato a guardare verso il basso tra germogli e fiori.

Horkos, opera prima di Marta Anatra, ci mostra, attraverso ampissimi campi larghi, il mostruoso complesso industriale che domina la zona, restituendo una sensazione di piccolezza rispetto alla fabbrica e alle moltissime e altissime ciminiere che la sovrastano. Quando la camera si avvicina a immortalare i primi piani delle persone che intervengono, invece, entriamo nell’intimità dei paesani e delle loro storie.

La fotografia, grazie anche alla scelta dell’analogico, riesce a trasmettere una sensazione quasi nostalgica rispetto al passato di Portovesme, ampliando l’emotività di chi al villaggio è rimasto nonostante tutto. Per sottolineare questa sfumatura, in una particolare sequenza del documentario la regista porta a fondere progressivamente i negativi che ritraggono la fabbrica con le riprese di un’orchidea cresciuta su un terreno arido, conferendo alla suggestione poetica un ruolo, in questo caso, primariamente civile, seppur non rinunciando alla sua intimità.

Ma la sperimentazione passa anche attraverso il sonoro, costruito da rumori industriali metallici e suoni distorti in principio disturbanti, e che progressivamente entrano nell’immaginario uditivo dello spettatore, per renderlo edotto dell’alienazione che abita il centro di questo racconto di febbrile denuncia sociale. Un’alienazione rivelatrice di come la fabbrica, che è chiusa ma che non è mai stata spenta, continui a far riecheggiare il suo brusio, che scandisce la quotidianità deturpata della popolazione.

Senza voler esplicitare la propria posizione ma lasciando sempre allo spettatore la possibilità di giudicare i fatti da sé, Marta Anatra firma dunque un esordio onesto e maturo, in cui la scelta di mostrare la realtà di questi “mostri d’acciaio” che hanno intossicato la natura circostante non contrasta con il rispetto verso chi difende la fabbrica e lotta per una sua riapertura, visto il sostentamento economico di cui è generatrice. Rivelando la componente più evidentemente politica del film la regista si concentra infatti sul rapporto che si crea tra fabbrica e villaggio, posizionando la cinepresa tra chi vuole la fabbrica chiusa, e preferiva la vita prima dell’arrivo del complesso industriale, e chi invece ne riconosce appunto l’apporto in ricchezza.

A emergere più forte che mai è anche, e forse soprattutto, il contrasto tra artificio e natura: si evidenzia, infatti, come l’avvento del centro industriale abbia avvelenato l’ecosistema circostante, tanto da rendere il pescato inutilizzabile e il vino intossicato dal piombo. Il personaggio di Andrea in questo senso diventa un vero e proprio Virgilio, che ci porta a scoprire come, passando dal particolare all’universale, la natura riuscirà sempre ad avere la meglio su chi cerca costantemente di ferirla. Proprio come accade a quell’orchidea, che riesce a crescere e germogliare anche in un terreno funestato dalle tossine.

Horkos è un dio della mitologia greca, figlio di Eris, la discordia, e rappresenta il giuramento. Gli elleni pensavano che all’infrangere di una promessa quest’ultimo avrebbe maledetto il colpevole gettandolo in uno stato di immobilismo e impossibilità di cambiare. Marta Anatra ipotizza che sia successo proprio questo al paese, poiché le promesse di arricchimento derivanti dal centro industriale non sono mai state mantenute, ed ora il villaggio è rimasto immobile e sospeso. [Filippo Foscarelli]