Conclusa da pochi giorni la sua importante, ventesima edizione (Pontenure, 21-28 agosto 2021), Concorto Film Festival si è confermato uno degli appuntamenti italiani più attesi e consapevoli nel presidiare la diffusione della forma breve di vocazione internazionale. Festival immaginato e gestito nel nome della garanzia di un incontro fisico con il pubblico, secondo una strategia che anche a fronte della difficile ricerca di finanziamenti in questa stagione pandemica non rinuncia all’obiettivo ambizioso di bilanciare globale e locale, Concorto rinnova una scommessa di dialogo con gli spettatori che passa proprio attraverso la fiducia nell’assoluta libertà espressiva del cortometraggio. Forma, questa, che nel pieno di una crisi che tocca da vicino anche il cinema e le sue istanze, più di altre ha saputo (anche inconsciamente) riflettere i tempi e i sentimenti di una trasformazione in pieno corso, spesso nel solco di un’agilità o reinvenzione produttiva che ne ha potenziato orizzonti e necessità.

Colpisce così, al netto di una linea curatoriale estremamente aperta, lontana da facili griglie tematiche e al contrario protesa a coprire più latitudini e linguaggi possibili, la grande ricchezza del concorso ufficiale, che quest’anno ha visto proiettati sullo schermo all’aperto del festival – accanto ai diversi, interessantissimi focus fuori concorso – 48 cortometraggi di provenienza eterogenea, molti dei quali in anteprima italiana dopo presentazioni di successo nei maggiori festival europei e mondiali. Difficile ripercorrerli tutti o giocare a intessere percorsi sotterranei fatti di eco o corrispondenze: al contempo l’esperienza critica più stimolante che Concorto evoca è proprio quella del diario, della memoria emotiva che lega immagini e suoni nel segno della soggettività, di una visione condivisa, di un’esperienza relazionale.


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In alcuni casi, sono gli stessi film a proporsi come strumento di rielaborazione interiore: fatti o vicende avvenute nella vita privata riemergono dalla memoria grazie alla forza della visione. In Still Processing, Sophy Romvari tenta di elaborare un lutto familiare riscoprendo alcune, vecchie, fotografie della propria cerchia. Filmandosi mentre guarda per la prima volta queste immagini, la regista sembra portare lo schermo a sdoppiarsi: da una parte la percezione presente del dolore, dall’altra le ombre di un passato ancora puro, adolescenziale. Un’operazione simile viene svolta da Ismaël Joffroy Chandoutis, anche se questa volta le immagini a bassa risoluzione di una camera di sorveglianza vengono accostate all’animazione digitale. Maalbeek, Premio speciale della Giuria, narra dell’attentato alla stazione metropolitana avvenuto il 22 marzo 2018, a Bruxelles. Protagonista dell’attentato e affetta da amnesia post-traumatica, Sabine prova a rielaborare le immagini dell’evento. Attraverso una ricostruzione franta e sospesa, ridotta in polvere luminosa, il regista ci accompagna dentro un viaggio tanto lirico quanto violentemente concreto, a testimoniare l’atto di sparizione dei ricordi, se manca un’immagine a cui aggrapparsi. Troviamo un’altra rielaborazione del lutto in Son of Sodom, opera cruda ed essenziale del colombiano Theo Montoya. Il giovane Camilo Najar viene selezionato a un casting, ma una settimana dopo muore per overdose di eroina. Per coincidenza, nel colloquio filmato dal regista si parla di morte, di droga, di sogni. Il ragazzo, conosciuto sui social attraverso il nome da cui il documentario prende il titolo, impersonifica una generazione spezzata nella sua identità, ma nonostante i problemi e le domande che sorgono nel corso della visione, le immagini ci restituiscono il ritratto di un ventunenne curioso e libero, tradito soltanto dalla consapevolezza fin troppo cinica del proprio destino. Un ritratto disincantato e, nonostante il lutto, un malinconico omaggio alla vita.

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Ampio spazio offerto al fertile e spesso poco valorizzato cinema d’animazione. Una selezione trasversale, in cui spicca la predilezione per il disegno rispetto alle composizioni digitali. Affairs of the Art di Joanna Quinn è un esilarante ritratto familiare, punteggiato da animali fatti a pezzi e frustrazioni maniacali da artista della domenica. Nel corto, la stessa regista/illustratrice si mette letteralmente a nudo, filtrando il racconto delle vicende parentali (ci ricorda tanto il Crumb di Terry Zwigoff) attraverso un disegno sapiente e sfilacciato, tipico della scuola bozzettistica britannica o prossimo a quella dei classici disneyani anni ’60. La libertà del segno, mischiata all’eleganza dei movimenti, riescono a rendere ancora più netti i contrasti con lo humor nero del racconto. Passando in Russia, troviamo il delizioso BoxBalet di Anton Dyakov. Sempre sulle corde della stilizzazione da fumetto canonico, questo corto diluito da tinte malinconiche e personaggi ordinari, racconta la storia d’amore fra due opposti (un boxeur e una ballerina). Disegni asciutti e stilizzazione quasi letterale (da Grosz, per intenderci), ma è proprio nella sua umiltà che emerge tutta la poesia del film: atmosfere, silenzi e interpreti che ci fanno pensare al miglior cinema di Sylvain Chomet. In antitesi a questi due film dal tono più classico, spicca The natural death of a mouse, realizzato da Katharina Huber e vincitore del primo premio Asino d’oro: una porta spalancata sulla fantasia distorta di una grafica pubblicitaria, fra visioni allucinate e altalenanti, commozione e violenza ingiustificata. Il corto sembra mettere in luce, attraverso un sovrapporsi babelico di dettagli nonsense (geniali le braccia rosse della protagonista), le sembianze schizofreniche che siamo costretti ad assumere nel mondo contemporaneo. La morte di un topo è l’unico vero contatto con la brutalità della natura, a cui siamo abituati a relazionarci solo attraverso un click. Ma ancora più folle e convulso è Swallow the Universe, di Nieto: tentativo immancabilmente riuscito di ingoiare un universo intero e rigurgitarlo su di un papiro. Partendo dalle sembianze di una favola giapponese cantata da una rana menestrella, il film narra la vicenda di un giovane con i denti magici (e flatulenti), a cui una serie di mostri leggendari provano a strappare il viso. I fantastici disegni, realizzati dall’artista giapponese Daichi Mori, sono un mix di cultura tradizionale, manga, gore, videogames e nevrosi postmoderna. Swallow the Universe è la testimonianza di un atto esclusivamente gratuito, privo di logica, e proprio per questo esilarante e coinvolgente: una versione di Kung-Fu Panda per adulti. Rimanendo nell’ambito dell’epoca delle passioni tristi, merita un cenno il Polka-dot Boy della francese Sarina Nihei. In bilico tra psicodramma e fantascienza, il film è un tuffo silenzioso all’interno di una narrazione sospesa, sostenuta da un disegno asciutto, al limite del grafico, appena sporcato da macchie febbricitanti. Ancora una volta, la narrazione distopica diventa allegoria di un sentimento comune molto più profondo, appartenente ad una generazione immobile con gli occhi sbarrati davanti al mondo.

L'”artigianalità” è senza dubbio l’aspetto più peculiare del cinema d’animazione. Fra tutti, Conversations with a Whale di Anna Samo è quello che ha maggiormente messo in mostra gli strumenti “analogici” (prima di tutto, le mani sporche di grafite) con cui un illustratore può realizzare la sua opera. Una breve narrazione su l’arte del creare, sulla marginalità dell’azione poetica nei confronti dell’industria culturale e della vita che va avanti. A partire da una frase tratta dalle ossessioni del padre, con Todo es Culpa de la Sal María Cristina Pérez González sceglie di narrare le sue vicende familiari attraverso un processo di metamorfosi: tutti i parenti hanno le sembianze di animali, nella fattispecie bradipi. L’elemento che rende accattivante il film sono le illustrazioni (più dipinte che disegnate), che sembrano uscite da un libro per bambini. In questo modo, la regista sa rendere originale il tema forse un po’ troppo abusato della famiglia, raccontandola come una favola della buonanotte. Anche i due corti italiani in concorso scelgono una via più artigianale per l’animazione. Malumore è un interessante mix di cinema sperimentale e indagine sociale del lavoro da badante a Salerno. Le tenebre in cui Loris Giuseppe Nese ci immerge vengono squarciate raramente da grasse pennellate al neon, notturni tanto profondi da trasformarsi in sogni irrequieti e assillanti. Il finale svela l’entità documentaristica del progetto, regalando alcune sequenze d’interno casalingo strappate da un videotape. Il corto riesce a dosare sapientemente materiale d’archivio e disegni visionari, donando al reportage politico una visione più poetica che analitica. Infine, ritroviamo il cortometraggio di Magda Guidi e Mara Cerri, già protagoniste di una lunga intervista da noi pubblicata l’anno scorso. Sogni al campo è un delicato omaggio alle fantasie adolescenziali, quelle di un bimbo avvolto nella noia di un’estate in campagna. L’animazione realizzata a pastello ci riporta alle suggestioni poetiche del più recente cinema italiano (quello di Alice Rohrwacher in particolare), e adotta coraggiosamente lo stile artigianale del maestro Simone Massi (il cui fedele compositore musicale, Stefano Sasso, ha realizzato anche la colonna sonora di questo film).

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Ritornando al cinema dal vero, Concorto non teme di inanellare all’interno della sua fitta programmazione una persistente, mai banale, meditazione sulla solitudine, che a partire dal liquido sguardo cosmopolita di Adriano Valerio, autore di The Nightwalk, materializza senza troppi indugi anche il fantasma improvviso e imponderabile della pandemia che ci ha travolti, ognuno nel quotidiano di storie personali da ricomporre o a cui dare un nuovo inizio: è il caso del protagonista Jarvis, che si è appena trasferito a Shanghai e immediatamente si trova confinato nel suo appartamento semivuoto, immergendosi in un flusso di coscienza, tutto proteso alla ricerca e al bisogno dell’altro, che il film realizza con diffuso montaggio di scatti fotografici, come le istantanee provvisorie di un’incertezza incomprensibile da cui riparte il bilancio di una vita. Un bilancio simile a quello del protagonista e autore di Searching for a Mutual Composition, lo slovacco Peter Podolský, che forse proprio in ragione della pandemia sperimenta una ritrovata relazione intima con la figura materna, mutuata dagli stilemi di un reportage fotografico in una non meglio definita casa di campagna natale a cui fare momentaneo ritorno: scatti ravvicinati, scambi di ruolo e domande aperte, tutte sottese a un incondizionato affetto che segna un reciproco riconoscimento tra madre e figlio, anche da prospettive ormai diverse sulla vita.

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Infine la lezione della fiction più tradizionalmente intesa, caleidoscopica nel restituire mondi lontani, sondata in tutte le possibili varianti tonali: da una parte, il rigore impeccabile di Lili Alone di Zou Jing, spaccato di vita (certo anche sulla scia di Jia Zhangke) di una giovane donna cinese che dalle aree remote del Sichuan, complici i debiti di un marito giocatore d’azzardo, sceglie la via della grande città alla ricerca del denaro necessario a salvare un padre morente, ma finisce per perdersi tra le imponenti, geometriche architetture di un mondo che progetta interessi superiori a qualsiasi destino individuale; dall’altra, l’irriverenza quasi perturbante dello svedese Grab Them, una sorta di malcelato mockumentary firmato da Morgane Dziurla-Petit: la vita di Sally, una donna di mezza età senza coordinate stabili nel flusso di una società individualistica e liquida, si complica fino al parossismo quando la sua somiglianza plateale con Donald Trump si fa concomitante alla di lui elezione a presidente degli Stati Uniti. Uno spunto geniale favorito dagli effetti visivi digitali di ultimissima generazione (o almeno, questa è la speranza) per un incubo tutto contemporaneo che mette a confronto la propensione al piacere di una donna sola e l’orrore che l’uomo più potente e odiato degli ultimi anni ha saputo generare proprio a partire dall’espressività mediatizzata del suo volto. E ancora, le tinte pastello e la messa in quadro raffreddata del ritratto di un’adolescente minata dal confronto con le coetanee e con le regole del gruppo, in cerca di conferme attraverso una sessualità di rapina, come la protagonista del film macedone Severen Pol, di Marija Apcevska. Per concludere con una delle più belle immagini – una sineddoche malinconica e indimenticabile – di questa intensa sequenza festivaliera lunga 48 film, che raccontando luoghi, età, esperienze eterogenee, si è confermata anche una mappatura percorribile a più riprese, da più direzioni: il tavolo da ping pong senza fissa dimora protagonista di Pa Vend, il corto di Samir Karahoda intriso delle atmosfere dei luoghi reali del Kosovo del dopoguerra, dove l’ideale di uno sport praticato con talento attraversa lo sguardo di svariate generazioni di aspiranti atleti ma si perde nell’impossibilità di radicarsi dando concretezza al sogno. Quel sogno che il cinema e l’irresistibile ritmo veloce di palline e racchette filmate dalla macchina da presa riescono invece a omaggiare e ricollocare, dotandolo di una rinnovata dignità. [Marco Longo e Davide Perego]