“Da piccolo, avevo paura degli spazi chiusi”. Si presenta così William “Tell” Tillich, dopo aver trasformato una paura infantile nel suo esatto opposto, ossia una vita condotta quasi interamente all’interno di sale da gioco. Hanno tutti citato i giri in taxi nella notte di New York o un pastore seduto allo scrittoio di una chiesa riformata, intento a redigere un diario interiore proprio come fa Tell, nella camera di un hotel asettica, avvolta in lenzuola bianche. Ma il punto in The Card Counter non sta (solo) nel trovare la citazione o nel concludere che Paul Schrader giri in fondo sempre lo stesso film, vista l’autoevidenza e il chiaro intento dell’autore in questo senso. Il cinema di Paul Schrader è un sistema isolato, uno spazio chiuso – appunto – coerente con la propria condizione di isolamento. Le aperture e le chiusure con l’altro da sé sono aperture e chiusure di una mano di poker, parlano la lingua dei bluff e della comunicazione filtrata, spesso mendace. In cui serve conoscere il più possibile di ciò che è nascosto, leggerne le carte, contare i numeri, per meglio poterlo comprendere. E quindi evitare, in un’ostinata solitudine.

The Card Counter – si sceglie deliberatamente di dimenticare un titolo italiano che offende la nostra intelligenza di spettatori – prosegue una seduta di autoanalisi che ci accompagna sin dai tempi del girovagare di Travis Bickle o dall’insonnia del light sleeper Dafoe di Lo spacciatore. Uomini in procinto di compiere un passo irreversibile verso la salvezza o la dannazione, doverosamente in dubbio prima di agire. L’intercambiabilità di volti e situazioni per raccontare la stessa storia è la cifra del grande autore, che vola più in alto di qualunque sinossi e utilizza contesti e generi con l’abilità di chi siede al tavolo verde e tutto prevede.

Paul Schrader assomiglia molto all’ultimo autore di un cinema che non esiste più e che sopravvive, esclusivamente o quasi (vengono in mente Abel Ferrara e pochi altri casi), in lui. Cinema realizzato senza porsi la questione del perché e per chi realizzarlo, cinema che deve essere realizzato e basta, per necessità, sfogo e testimonianza di un dissidio interiore, come risposta inevitabile alle sofferenze del mondo. E che rivolge uno sguardo disilluso e nostalgico a Bresson e alla Hollywood che fu. Per l’anima non c’è una cura, ma esiste comunque una missione, un dovere morale a cui adempiere: lenire le sofferenze del mondo e durante il processo anche quelle del cinema (The Canyons), di cui permane solo uno spettro ingannatore, un Minnesota che per tutti è il Minnesota Fats da Lo spaccone, ma invece non pratica neppure lo stesso gioco.

The Card Counter è l’anello di una catena di assoluta coerenza, di cui il suo autore è il primo a essere consapevole, tanto da disseminare un’evidente e sfacciata serie di autocitazioni. Il tatuaggio sulla schiena di Tell, “I trust my life to providence/ I trust my soul to grace”, che proviene da una canzone di The Call già nella colonna sonora di Lo spacciatore, e che pare sussumere in un verso tutto Schrader; il finale sublime, che deve tanto ad American Gigolo quanto per proprietà transitiva a Pickpocket; il diario incessante di First Reformed; gli edifici spogli e disabitati in campo lungo di The Canyons; e così via, fino a includere un gatto nero che attraversa la strada, e su cui si sofferma misteriosamente la macchina da presa, che potrebbe pure scherzosamente richiamare Cat People.

Schrader ci immerge in un abisso letterale (un gioco di specchi che in una scena rimanda a quattro immagini di sé) e metaforico attraverso un eterno tempo presente, quello di paradisi artificiali dove cogliere la mancanza di senso del mondo reale. La sala da gioco e le sue luci posticce, che si riflettono anche in una breve parentesi romantica con una sorprendente Tiffany Haddish, sono l’unica chiave interpretativa di un’America che esiste e sussiste solo nel suo avatar, in quella proiezione mentale di nazione a cui ci piace credere, anche se per farlo abbiamo bisogno che i suoi simboli e il suo nome siano incessantemente esposti e ribaditi (straordinario personaggio quello dell’ucraino ma patriottico Mr. USA). E la sua spazzatura, come Abu Ghraib, cancellata e presto dimenticata come un brutto sogno, rimpiazzata dall’insistenza sui sistemi di sicurezza, nuova e subdola forma di oppressione. In questo eterno presente sottovuoto si muove un personaggio che sceglie per sé il nome di un elvetico passato (spruzzato quindi di un calvinismo molto schraderiano), per posizionare una mela invisibile su un ragazzino confuso e infelice, sbagliato già nel nome, che si scrive Cirk ma si legge Kirk, in cui riscontrare i danni di un triste passato e l’abbandono di un futuro che si annuncia altrettanto fosco.

D’accordo, quindi: tante citazioni dotte e va bene così. Ma “poi me ne restano mille”? Sì, perché lo sforzo di ricordare il passato in un presente che è opprimente proprio quando dovrebbe rappresentare la speranza, in cui sono i debiti di un college a portare sull’orlo del baratro e il gioco d’azzardo a proporsi come salvezza, è ciò di cui abbiamo bisogno. Nel dolente canto di trapassati che cercano vendetta per ottenere la pace e nella delega di questa vendetta per conto terzi vivono l’incertezza e l’incredulità di una generazione che abbiamo consegnato alla disperazione. Schrader crede ancora nel cinema, non come redenzione o espiazione, ma come presa di coscienza. E per come siamo messi, anche la semplice consapevolezza di ciò appare come un miraggio.