Scrivere di un film di Paolo Sorrentino:

istruzioni per l’uso

 

1.Una recensione senza giudizio di valore

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Se andiamo a ripercorrere la filmografia di Paolo Sorrentino troveremo un unico tema che traccia ogni sua intenzione poetica, ma che allo stesso tempo sembra essere ciò che a un primo sguardo ha sempre evitato: la realtà.

Sin dal folgorante esordio (per molti rimasto una meteora destinata a non ripetersi) con L’uomo in più, passando per opere che, piaccia o non piaccia, hanno segnato tracce importanti nella storia del cinema italiano recente, come Le conseguenze dell’amore, Il Divo e La Grande Bellezza, Sorrentino ha sempre cercato di inseguire quell’idea di reale che il cinema gli permetteva di poter agguantare con tutti i suoi mezzi intrinseci. Nell’immaginario collettivo, cinefilo e non (e ammesso che Sorrentino sia presente nell’immaginario collettivo), quando si pensa alla filmografia sorrentiniana si visualizza quello che di più distante può esserci rispetto al realismo o al verismo artistico, dimenticandosi, a volte volontariamente, che questo non significa necessariamente che nelle sue opere non si cerchi comunque di raggiungere l’annullamento tra l’occhio umano e lo schermo. In un’intervista di qualche anno fa del resto Sorrentino dichiara “Se mantieni una camera fissa con “luce naturale” per un’ora non sei realista, sei solo sciatto”. L’occhio umano, è vero, vede in altissima definizione, e può passare da stacchi di montaggio velocissimi a lunghi piani sequenza; la vita carica di momenti di niente, è vero, è deformata dal proprio punto di vista sulle cose; la società ingabbiata in un perenne spot di se stessa, è vero, ci trasforma in riflessi di puro esibizionismo. E allora come dobbiamo comportarci quando “prendiamo una camera e scendiamo in strada a filmare”?

Il discrimine che getta forse un filo di chiarezza sul vero o falso mito di questo sedicente smascheratore del falso realismo, potrebbe essere individuato nello scisma tra forma e contenuto. Più la forma, la biografia della luce direbbe Pablo D’Ors, corre per raggiungere la verosimiglianza dei movimenti dell’occhio, più il contenuto prende coscienza che la realtà è irraggiungibile. Per questo l’Andreotti di Sorrentino non è mai il vero Andreotti, ma sempre e solo quello che abbiamo sentito dire di Andreotti, il personaggio insomma, da Antonio “Tony” Pisapia fino a Berlusconi e Papa Lenny, non è mai la persona. Da qui un cinema di distrazioni malinconiche, di rimossi mal celati, di rumori di sottofondo, di musiche rigorosamente extradiegetiche e rigorosamente non originali.

Con È stata la mano di Dio Paolo sembra tirare i remi in barca, quando insomma Sorrentino non era ancora Sorrentino, quando la persona non era ancora il personaggio, ma era un Paolo come tanti, un Fabietto insomma. Nell’opera che gli è valsa il Leone D’argento e una candidatura ai Golden Globe (per ora), Sorrentino mette in scena un cinema in potenza, pronto a esplodere, ma che un attimo prima si trattiene e implode nel racconto di formazione classico. “La realtà è scadente” confida Fabietto a Capuano. “Quando sono morti non me li hanno fatti vedere”. Quella realtà tanto deprecata è scadente proprio perché irraggiungibile, nascosta dietro la porta di un pronto soccorso di Roccaraso. E allora, per adesso rimuoviamola. Sì perché questo cinema di fatto non è che un’enorme rimozione del lutto, del lutto personale e del lutto di una società orfana di una sostanza, affogata nella forma, che non trova se stessa in mezzo a quei famosi trenini che non vanno da nessuna parte. Quest’ultimo film di fatto non è così diverso dai precedenti, perché dietro a una drammaturgia forse più corposa, quasi da Libro Cuore, senza colonne sonore pop (tutte mutate dentro al walkman di Fabietto), si nasconde quell’inseguimento nella notte, sorpassando tutti a destra, verso quell’immagine che spiega perché il reale non è qualcosa a cui Fabio/Paolo ha intenzione di puntare.

 

 2.Una recensione con giudizio di valore

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Prendete questo pezzo, sostituite qualche parola nell’ultimo paragrafo e cambiate titolo al film, e potrete recensire ogni film di Sorrentino. Per lavoro ho dovuto vedere al cinema È stata la mano di Dio due volte nel giro di una settimana, e durante queste due visioni l’unica domanda che mi veniva naturale pormi era “E quindi?”

Cosa rimane dopo questo discorso, che è sempre lo stesso da La Grande Bellezza in poi, invertito, capovolto, camuffato, ma sempre vomitato attraverso la stessa, identica idea? Quell’unica cosa da dire insomma (evidentemente una la teneva), coniugata fino allo sfinimento, prodotta in serie/serialità, customizzata per LA PIATTAFORMA, con la scusa di raccontare il post moderno, e quindi mantenendosi nell’identico per poter raccontare il niente (e per citare Flaubert a sproposito per l’ennesima volta). È stata la mano di Dio dietro la sua presunta innocenza, la sua minor militanza autoriale, ci costringe a non poter inserire ancora una volta un giudizio di valore nell’analizzare il cinema di Sorrentino (che non sia un’intolleranza a pelle), ormai trasformatosi in un percorso reazionariamente programmatico, come a voler tirare una corda dritta che non vuole correre il rischio di trovare nodi da sciogliere sul suo percorso, diventato vittima del vizio che vuole raccontare. Se fino alle avventure di Jep Gambardella questo cinema era stato effettivamente in grado di mostrarci un mondo “altro” che si crea sulle vacuità di questo (perché il cinema non può essere il mondo ma un mondo), ancora una volta in questo racconto di genesi Sorrentino subisce quella stessa sconfitta della consapevolezza di ciò che è reale e ciò che non lo è, piegandosi su se stesso nell’autoreferenzialità del suo stile. Non c’è universalità in È stata la mano di Dio, c’è solo una lista di eventi da mettere in scena per poter parlare di se stessi, un solipsismo artistico addolcito con una messa in scena che calamita l’attenzione e fa sbrilluccicare gli occhi con un comparto attoriale e tecnico dopato di performance cadenzate da una perfezione leziosa, senza niente da voler cambiare veramente, neanche quel niente che si voleva raccontare all’inizio, tra un calciatore/cantante neomelodico, un contabile della mafia e un giornalista della dolce vita. Tra le dichiarazioni consunte di un Fellini appena accennato e un Capuano ridotto a macchietta, che in quel “Non ti disunire” racchiude tutta la maniera di un Sorrentino che maschera la mancanza di idee con finti enigmi di senso (il vero Capuano nel frattempo ha diretto un film italiano veramente grande, come Il buco in testa, passato per lo più inosservato), È stata la mano di Dio ci tenta nel cedere a catastrofismi e a intravedere dietro a questo genere di opere svuotate di ogni istanza sovversiva, non tanto la morte del cinema, quanto (e forse è ancora peggio) la sua e la nostra sconfitta.