Nel 1958 usciva sulla televisione nazionale georgiana un piccolo cortometraggio diretto da un giovane aiuto regista proveniente dalle fila della Gruzija Film, formatosi al VGIK di Mosca. Il film narrava, in 8 minuti, le vicende di una famiglia povera la cui esistenza e percezione del mondo venivano alterate dall’incontro con l’arte e con il suo potere rivelatore. Allo stesso modo, 53 anni dopo Akvarel di Otar Iosseliani, un altro regista georgiano, Alexandre Koberidze, ha creato un’opera cinematografica in cui il potere dell’arte, e più specificamente dell’arte cinematografica, è rivelatore dell’esistenza dell’uomo. Come in Iosseliani anche in Koberidze infatti il cinema non è soltanto medium ma è entità viva, attiva nell’opera, vi partecipa esplicitamente spezzando incantesimi (o creandone di nuovi) grazie allo svelarsi delle sue immagini.

In What Do We See When We Look at the Sky? Koberidze costruisce un’esperienza di visione cinematografica in cui allo spettatore è assegnato uno dei ruoli più belli che si possano desiderare: quello di complice del film. Sta a noi infatti decidere se credere all’autore e al suo racconto, e così seguirlo in questo gioco, diventando parte attiva dell’opera. Non siamo mai passivi rispetto alle immagini proiettate, anzi, più decideremo di stare al gioco e prendere parte a questa esperienza di realtà cinematografica, più porte ci si apriranno.

Anche in Let the Summer Never Come Again del resto il ruolo dell’immagine era per il regista questione di primissimo piano, catalizzatrice del film stesso, anche se il livello su cui agiva era più sulla deformazione impressionista del mondo che sul testo, mentre qui il cinema gioca un ruolo essenziale, muovendosi spiritualmente anche al di là dei suoi confini prestabiliti.

Il cinema di Koberidze insomma è tutto tranne che ermetico, preferendo giocare con la profonda relazione che non può fare a meno di avere con lo spettatore e cercando sin da subito quell’incontro che gli permetterà di assurgere al suo fine più alto, quello di farsi fabula. In questo senso l’immagine non è mai funzionalista, non rispetta un sistema coerente e determinato di significati e traiettorie, ma è immediata, semplice e quindi aperta e vitale, non mercificandosi ma dandosi al reale senza intermediari mistificatori.

What Do We See When We Look at the Sky? si lascia distrarre dall’accadere della vita, sia esso personificato da ragazzini che giocano a pallone, o da cani randagi che si danno appuntamento per vedere le partite dei mondiali, o ancora foglie, cartelli, strade, luci, ombre, o il vento e una grondaia che avvertono una ragazza della sua sventurata sorte. Una costruzione sinfonica della realtà cinematografica quindi, in cui i vari elementi eterogenei sono parte essenziale e necessaria del film stesso. Koberidze è conscio dell’intenzione e del fine della sua opera, come nel finale in cui la voce narrante (di Koberidze stesso) si domanda ironicamente come possa un autore scegliere un soggetto tale, che non è per nulla utile alla società. Quella della Kutaïsi raccontata dal regista georgiano è infatti una sinfonia urbana, lieve ed essenziale ma allo stesso tempo densa e complessa, come già da altre parti il suo cinema aveva dimostrato di essere: piena di cose, vita e storie che si intrecciano, si perdono, lasciano il posto ad altre, in un miracoloso affresco di una realtà in cui lo stupore della visione rimane intatto per tutti i suoi 155 minuti. Girando a vuoto, senza una destinazione apparente, il divenire drammaturgico ci accompagna nelle maglie di questa opera-mondo in cui Lisa e Giorgi, promessi amanti uniti da un magico (e magistralmente espresso) incontro, verranno separati da un incantesimo che solo una rivelazione potrà spezzare.

Con What Do We See When We Look at the Sky? si ha la conferma di uno dei talenti più puri del cinema internazionale, capace di creare tra le sue opere universi non chiusi tra loro, ma aperti e comunicanti. Un film-mondo, si diceva, che racconta una versione alternativa, fluida e aperta della realtà attraverso un rapporto che il cinema intrattiene con il reale e in cui quest’ultimo, così come la vita stessa, è un segno, elemento semantico dell’immagine in movimento.