Spesso nel periodo della pre adolescenza i sentimenti che coltiviamo sembrano essere permanenti, portati avanti in un assoluto presente. L’inadeguatezza che proviamo è figlia del paradosso di un’era di mezzo, in cui sentiamo le nostre radici spesso come catene e in cui non apparteniamo a nulla.

Queste sensazioni abbracciano il primo lungometraggio di David Depesseville, presentato ai Cineasti del Presente durante il 75° Festival di Locarno. Omaggiando L’Enfance nue di Maurice Pialat, Astrakan si presenta come un film che porta il cinema realista francese verso una drammaturgia composta di archetipi. Le vicissitudini di Samuel, orfano dodicenne affidato a una famiglia adottiva, si circondano di simbolismi che per contrasto creano una dimensione volutamente alterata dall’inquietudine del protagonista, che attraverso un volto sempre enigmatico non concede spazi al dramma retorico, ma si concentra sul suo profondo significato.

Il rapporto con i compagni, i primi avvicendamenti al sesso, perfino le gite da amici di famiglia, grazie alla dimensione desaturata della messa in scena e della narrazione, si incarnano in un straniamento che cala tutto in un coming of age che si trasforma quasi in un noir. Ogni cosa in Astrakan si muove tra malinconia e disperazione, senza che nulla sia dichiarato nell’esteriorità di Samuel, riflessa come in uno specchio in un mondo che frana sempre addosso e che porta a spostarsi di lato, vedendo la propria vita scorrere accanto e interpretando tutto come se fosse una fiaba nera.

Ereditando la lezione di Rohmer e dello stesso Pialat e scagliandola nella contemporaneità, Depesseville fonda il conflitto del film nel suo tentativo, volutamente fallito, di entrare nella coscienza del suo protagonista. Consapevole che il cinema si estende dal reale ma non potrà mai essere il reale, il regista rincorre il personaggio, lo porta in situazioni tra estremismo dinamico e simbolismo statico (da momenti di grande respiro di contemplazione della natura ad attimi di violenza fisica e psicologica), senza mai raggiungerlo, senza mai raggiungere quello che giace dietro al film. Così la scena in cui Samuel si specchia nel letto del fiume, fino a scivolarci dentro, riassume tutto quello che Astrakan (l’astrakhan è una lana nera che proviene da agnelli uccisi nel grembo materno poco prima della nascita) è: una corsa verso un interno che per farsi prendere deve prima affogare l’esteriorità, con il rischio di perdersi in un labirinto, nel frattempo.

Da questo punto di vista l’universalizzazione del tempo passa per il disorientamento dello spettatore. Le coordinate temporali non esistono: fino a oltre metà del film siamo convinti di essere negli anni ’90, quando una banconota di 5 euro spunta dalla tasca di Samuel. Da lì la sensazione che quella storia, sebbene probabilmente diversa da quella di molti, possa essere anche la nostra, oggi, portando a galla le inquietudini di un’infanzia qualunque, magari normale, quella degli spettatori che hanno guardato e guarderanno Astrakan. Ma del resto tutto quello che riemerge, dopo essersi immerso, si trasforma per sempre.