Il cinema di Fabrizio Ferraro è un meraviglioso corpo estraneo nel cinema italiano, una collezione di opere che scelgono la periferia della visione per mostrare un’altra esistenza all’immagine-movimento, dimostrando che un cinema militante e dolcissimo, rivoluzionario e intimo, non sono contraddizioni, ma punti cardinali di un movimento verso e oltre lo schermo. In occasione del tributo dedicatogli dal Bellaria Film Festival, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Nei tuoi film ci sono molte contaminazioni con altre arti, mi viene in mente La veduta luminosa, con la poesia di Hölderlin, o Je suis Simone e Gli indesiderati d’Europa, con la filosofia e la letteratura di Simone Weil e Walter Benjamin. Oltre al discorso sul cinema come unione delle arti a me sembra che questa unione riconduca più che altro a una necessità dei personaggi dei tuoi film di lasciare delle tracce di sé stessi per non scomparire. Quindi volevo chiederti se l’uso così evidente non solo di altre arti, ma proprio degli artisti come personaggi, sia in qualche modo riconducibile a questa atavica necessità di lasciare delle tracce.

Sicuramente ogni rifrazione sul mondo ha in sé questo carattere di passaggio: lasciare che qualcosa possa manifestare una presenza avvenuta. Il cinema che lavora su questa presenza – che non è mai veramente presente, ma è inafferrabile – è uno strumento privilegiato per andare a indagare queste tracce. Anche perché, di tutto quello che facciamo, le uniche cose che restano e che si tramandano, anche come presenza fisica nel paesaggio, sono le tracce dell’arte, di un’espressione che metta in gioco il senso stesso e le ragioni della vita. Siamo presi dal movimento vorticoso delle cose, del fare, ma poi viene il momento in cui ogni opera del tempo lascia tracce singole. Tracce che sono sempre legate a tentativi di contenere, in una forma sospesa, tutto il movimento di una vita, che altro non è che un piano fisso, un’immagine, capace di sprigionare tutte le ragioni di un’esistenza. Per chi ha deciso di dedicarsi alle immagini riprodotte come forma espressiva, penso che tutto questo sia un privilegio.

Una delle scene più iconiche di Je suis Simone è quella di un uomo che si lamenta del fatto che il cinema sonoro abbia smarrito la sua derivazione dalla fotografia. In effetti André Bazin scriveva che il cinema non è altro che la fotografia a cui sono stati aggiunti il movimento e la durata. In questo senso mi sembra che i tuoi film siano molto semplici, perché guardandoli sorge una purezza, da questo punto di vista. Può bastare per te che il cinema sia “solo” questo, e che non serva altro?

Sicuramente. L’immagine ha un suo carattere, determinante, e l’immagine fotografica è il suo peccato originale, aspetto che viene dimenticato troppo spesso. Senza la fotografia non avremmo nulla. Il paradosso è questo: il cinema non è mai dato solo dall’immagine di partenza, cioè da quella fotografica, ma allo stesso tempo cerca di restare il più possibile attaccato a questa immagine, per fare emergere ancora di più un movimento che però, ricordiamocelo sempre, non esiste veramente. Si può fare un film d’azione, inseguimenti, rincorse, ma il movimento nel cinema non c’è, è trasmesso dalla visione, e la visione non punta mai all’unità minima, e non viene mai dallo schermo, che è solo un muro con una cornice dove non succede nulla. Il cinema è il tentativo di sfondare questo muro, attraverso il movimento creato da questa visione. Se si lavora con profondità e serietà, si può veramente abbracciare il movimento più ampio del cinema. Perché la visione non parte mai da un Io singolo, non appartiene a quel soggetto, però è soggetta a qualcosa e a qualcuno. Mentre è attraversato da un’immagine che è già data, e che precede ogni apparizione dell’immagine successiva, il pubblico si forma. L’insorgenza dell’immagine è al di fuori del singolo spettatore. Penso che sia necessario porsi in modo più articolato e profondo, rispettoso e monumentale, con il piano fotografico dell’immagine. Perché è sull’immagine, già sempre data, già sempre formata, che si costituisce il movimento del cinema; un movimento che non appartiene al singolo. Per questo il discorso sullo spettatore è un discorso insensato per il cinema. Perché il pubblico è sempre un pubblico che si forma sul momento, non è mai un’entità ferma. E un pubblico che si forma continuamente mentre partecipa di queste immagini non può mai essere circoscritto in un recinto di certezza e di parole. Non possiamo scappare da questa relazione eroica con questo taglio, con questa ferita, e questo taglio è l’immagine fotografica. Si cerca di renderla insensata nella sua serialità banale.

Rispetto all’uso degli attori, mi sembra che nei tuoi film gli interpreti siano allo stesso tempo il centro e la periferia dei tuoi film. Perché la loro presenza trasmette sempre questo forte senso di incomunicabilità. Penso a Gli indesiderati d’Europa, in cui fai parlare gli attori con delle lingue non loro. Il ruolo dell’attore è sempre molto particolare, perché, sempre parlando di pubblico, l’attore è il film. Che rapporto hai con loro? Hai un metodo con cui scegli chi far recitare nei tuoi film?

Fare un film è comunque intraprendere un percorso di vita e io preferisco farlo con persone che stimo e che mi stimolino. Poi, rispetto al gruppo produttivo con cui lavoro, è presente anche una compagnia teatrale. Osservo sempre i loro spettacoli, e osservando la loro evoluzione attoriale, indipendente anche dal lavoro che fanno con me, riesco a collocarli nei ruoli più adatti. Non riesco proprio a condividere la distinzione tra attori professionisti e non professionisti, perché io scelgo in base all’interesse che provo per quella persona. Proprio per gli aspetti che dicevi tu, che sono centrali: l’attore è un punto di passaggio del movimento di cui parlavamo, sia quando si gira che quando si vede il film, ma sempre in rapporto al resto: al paesaggio, all’ambiente, al discorso sociale che sottende il film. In questo senso, il rapporto dell’attore con il film è un rapporto dialettico di centralità e marginalità: dal mio punto di vista all’attore si deve sempre pensare come a un activatore, non si deve mai pensare come qualcuno che rappresenta un punto culminante, anche quando si fa un primo piano. Se diventasse un punto d’arrivo non avremmo nessun movimento, ma solo il muro dello schermo. Anche perché, quando andiamo a vedere il film, non vediamo mai veramente quella persona, sia che si tratti di un film di finzione o di un documentario, o cinema del reale, come lo chiamano adesso. Non c’è mai il protagonista vero del documentario, c’è sempre uno spettro, un fantasma. Questa è una grande possibilità per l’attore stesso: non sentirsi come punto centrale, ma sentirsi come parte di un movimento, per scoprirsi.

A proposito di fantasmi, sia Gli indesiderati d’Europa, che I morti rimangono con la bocca aperta, sono fantasmi, ma sono fantasmi perché sono stati uccisi dal potere oppure sono fantasmi la cui memoria dobbiamo recuperare propositivamente?

Ci sono sicuramente entrambi gli aspetti. L’esercizio distruttivo del potere, che si esercita nell’immediatezza dell’ordine e del comando, non accetta il movimento delle cose, quindi cerca di contenere, di circoscrivere e di poter possedere ogni movimento del mondo. E quindi, nel momento stesso in cui si attua l’esercizio della distruzione, che può essere per una persona in carne e ossa, per un pensiero, per un’arte, si vuole bloccare un movimento che muove e si muove in accordo con il moto della vita che sconfina. Tutto questo è destabilizzante per il potere, che ha bisogno di griglie, di qualcosa che sia lineare. Quindi c’è sempre questo doppio monito, anche per quello che dicevamo prima, cioè che tutto quello che viene distrutto è allo stesso tempo tutto ciò che resta. Quello che viene espulso dalla cornice della potenza, dall’esercizio del consumo, è l’unica cosa che resiste. Per questo è importante intercettare questi movimenti, contrari alla banalità, al cliché, al luogo comune – che sempre vengono richiesti, anche a noi che facciamo film – ma che alla fine scompariranno.