Che il cinema sia l’orizzonte da cui parte e si dispiega l’universo immaginifico di Yann Gonzalez lo si era già intuito nel favoloso pastiche di Les rencontres d’après minuit, presentato cinque anni fa alla Semaine de la Critique. Il racconto stilizzato di un gioco tra amici, tra le mura asettiche di un appartamento, lasciava affiorare rêverie romantiche e vagamente esotiche, in un trionfo di raffinati bric-à-brac in grado di far presagire il talento inventivo del giovane cineasta. Come succede (forse) ormai solo in Francia, il successo di critica del film ha messo in moto un nuovo e ben più ambizioso progetto: con Un Couteau dans le coeur, Gonzalez si cimenta con il cinema d’autore più strutturato, mostrando di sapersi destreggiare tra nuove imposizioni e ricerca di ulteriore libertà.
Forse è frutto di un’esigenza “commerciale” la straordinaria presenza di Vanessa Paradis, meteora fragile ma estremamente resistente del jet-set internazionale, eppure non ci poteva essere una figura migliore (e non si parla di interpretazioni) per vestire i panni glamour di Anne, regista lesbica di porno prevalentemente a tematica gay, alcolizzata e sprezzante, realmente esistita nella storia underground del cinema francese anni ’70. In impermeabile lucido e fiammanti stivali rossi, Anne attraversa un mondo urbano che il regista lascia perlopiù immaginare, preferendo concentrarsi sui corpi maschili stretti in continui amplessi. Ma l’atto d’amore è sempre funzionale alla macchina da presa che lo immortala, fin dalla prima scena in cui il boccoluto Sebastiano e il suo fisicato compagno appaiono nella luce tremolante di una pellicola 16mm scorsa in moviola dalla montatrice Lois (la sodale Kate Moran). In questa presenza esibita della macchina da presa e della superficie dei fotogrammi si racchiude la domanda che sottende tutto il film: è possibile immortalare l’abbandono all’atto d’amore sulla pellicola?
Abilmente come una detective story, che offre una prima lettura più decifrabile e meno respingente, Un Couteau dans le coeur è la seconda tappa di un percorso autoriale volto a sondare le pieghe recondite di un immaginario cinematografico, nel tentativo di carpirne la forza segreta e viscerale. L’assassino seriale di giovani attori omosessuali non è altro che lo spirito liberato dal cinema stesso, nella sua capacità di riprodurre l’irriproducibile, di spacciare per “finzione” un atto che accade realmente di fronte alla camera, di assottigliare la distanza tra immaginazione e atto: per questo riesce a richiamare alla vita le anime degli amanti morti e i corvi ciechi di un oscuro passato. Dalla pellicola si sprigiona il fascino fantasmatico proprio dell’assistere da spettatori alle nostre stesse vite, testimoni del cambiamento. Terribile e necessaria presa di distacco su cui già si incentrava l’opera prima del regista.
Se Gonzalez condivide con Bertrand Mandico (che non a caso compare nel film come operatore dei porno firmati da Anne) la passione per il cinema di genere italiano degli anni ’80, se non addirittura ’90 (qui più che Mario Bava, si cita Lamberto), la sua riscrittura appare estremamente calibrata, in grado di trasfigurare anche le componenti più becere e artigianali in una fulgente nuova forma. Così mentre Mandico non ha paura di tingere di orrendi colori lo sperma dei suoi mostri, qui il bianco lattiginoso diventa un getto astratto e raffinato. Lo stesso accade per i “cattivi”, intrappolati in mute di cuoio nero, maschere di ferro essenziali e inquietanti, mentre l’altro li riveste di improbabili strati di cartapesta. Proprio nei due diversi approcci nella rielaborazione di un immaginario comune si impone una nuova “ondata” del cinema francese, gioiosamente queer e maledettamente cinéphile, dedita a raccontare – e trasfigurare – la favolosa storia delle immagini in movimento. [Daniela Persico]
DUE GIORNI, UNA NOTTE
Sono passati dieci anni da Tulpan, elogiato esordio alla finzione del cineasta kazako Sergey Dvortsevoy, già affermato documentarista. Con Ayka si guadagna un posto nella competizione di Cannes, in una giornata conclusiva ma particolarmente densa, con in programma altre due opere in concorso, Un Couteau dans le coeur di Yann Gonzalez e Le poirier sauvage di Nuri Bilge Ceylan, oltre che l’atteso The Man Who Killed Don Quixote di Teery Gilliam, evento speciale. Che il regista venga dal documentario lo si percepisce fin dalle prime inquadrature dopo i titoli: camera a mano instabile e massima aderenza ai corpi filmati. L’incipit è degno di Rosetta, con la protagonista del titolo che fugge dalla clinica in cui ha partorito la notte prima: dopo essersi rinchiusa in uno sgabuzzino, forza una delle finestre e si catapulta all’esterno, correndo in mezzo al traffico di una Mosca ricoperta di neve. La macchina da presa fa fatica a starle dietro, anche se è una fatica programmatica: la perde, la ritrova, le cede il passo e la lascia andare avanti, per poi riprenderla, in un andamento teso e a strappi che caratterizza lo stile dell’intero film.
L’aria è soffocante, la vita della venticinquenne protagonista un caos che lo spettatore è chiamato a condividere in maniera forzosa: Ayka, rifugiata kirghisa con un permesso scaduto, ha perso il lavoro e deve restituire una cifra ingente a un violento usuraio che le dà la caccia e la ritrova nel tugurio in cui vive accalcata con altre decine di scampati, nonostante lei abbia cambiato telefono. Ha due giorni per trovare il denaro necessario e poiché nessuno è deciso a offrire lavoro a una giovane donna che non è in regola con i documenti, si troverà nella situazione di dover decidere se cedere o meno l’unico bene che possiede, e che ha momentaneamente abbandonato. Il dilemma morale che grava sulla protagonista è simile a quello di tanti personaggi del cinema dei fratelli Dardenne, qui evocati a più riprese, anche se l’approccio di Dvortsevoy è più duro: non concede alla giovane donna alcun momento di tregua, nemmeno per pensare, tanto che la decisione cruciale viene presa in apnea, più una reazione di sopravvivenza fisica che alcunché di minimamente ponderato.
E insieme al cinema dei Dardenne viene in mente anche quello, più “sporco” di Brillante Mendoza, in particolare il recente Ma’ Rosa (2016), in cui una donna sposata e madre di quattro figli, passa una notte di inferno nel tentativo di pagare la cauzione per il marito incarcerato. Il finale del film, con la protagonista che si sfoga in un pianto liberatorio è molto simile a quello che conclude (momentaneamente) il calvario di Ayka, rifugiatasi nell’androne di un palazzo. Il destino della ragazza è cupo, e solo un’ulteriore fuga potrebbe procurare una momentanea salvezza. Ma dove? La Russia raffigurata dal film è un territorio ostile, la bufera di neve che infuria su Mosca una metafora per il gelo umano di una società allo sbando che vede nell’imminenza dei campionati del mondo di calcio da giocarsi in patria l’unica possibilità di evasione e riscatto collettiva. [Alessandro Stellino]