Un realismo seducente è la cifra stilistica dell’esordio nella finzione dell’attrice e documentarista Mati Diop, senegalese di origine ma ben integrata nel sistema francese (attrice per Claire Denis e affezionata autrice dell’interessante fucina del Fid Marseille). Atlantique sorprende per la naturalezza con la quale dipana una storia d’amore e prevaricazione in una città africana in cui la speculazione edilizia sta creando una spaccatura sociale sempre più profonda. La giovane Ada, promessa sposa a un nuovo ricco, è innamorata di Souleiman, che una notte scompare improvvisamente inghiottito dal mare. Ma il desiderio inappagato del loro amore è pronto a ritornare possedendo il corpo dell’investigatore chiamato a indagare sugli strani eventi che coinvolgono la giovane sposa. In un seducente gioco di specchi, l’amore tra i due giovani troverà il proprio compimento, lasciando Ada libera di andare incontro alla propria vita oltre i giochi del potere.

Seguendo una linea drammatica estremamente semplice, quasi da fiaba archetipica, la regista reinventa la forma della narrazione, concentrandosi sulla giovane protagonista e la sua percezione del mondo. Dopo il frugale incontro amoroso in apertura, il tempo si dilata alternando fasi di veglia e di sonno, in un crescendo di insofferenza nei confronti di una famiglia che condanna la giovane al ruolo di moglie. Le inquadrature con la tenda che ondeggia lievemente e quella dell’orizzonte marino, a raffigurare non solo l’ineluttabilità del proprio destino ma anche l’ostinazione nel trasformare il fato in coscienza, si fanno così presentificazioni di una profonda presa di coscienza.

Ancora una volta in questo Festival (dopo l’apertura con The Dead Don’t Die di Jarmusch e Zombi Child di Bonello) tornano gli zombi, nelle scene più forti del film: la rivolta di Ada è sorretta da un incantesimo, ogni notte i deboli perdono il loro sguardo per acquisire la forza di imporsi sui potenti, in una rivolta che coinvolge sia le ballerine dei locali notturni che il detective solitario, posseduto dallo spirito dell’amore perduto. Un popolo di giovani in lotta, che all’alba avrà fatto esperienza di un movimento (amoroso e politico) a cui aderire. [Daniela Persico]


IL FIORE DEL SUO SEGRETO

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“Un film di Almodóvar”? Di più: un film su Almodóvar. Perché nel suo Dolor y gloria, presentato in Concorso a Cannes, Don Pedro de la Mancha non si limita a comporre un bouquet (una corona funeraria?) di motivi topici, ma svela il fiore del suo segreto… Molti sono gli echi interni alla filmografia dell’autore, a partire dalla figura del protagonista, Salvador Mallo, regista messo alle strette dalla vita (e la mente torna a La legge del desiderio e a Gli abbracci spezzati). E, ancora, amour fou, divoranti passioni omosessuali, preti equivoci, donne energiche, icone queer (Mina!), relazioni familiari tormentate dai rimorsi e dall’inconfessato, gli umori della Spagna rurale dei tempi andati. E, va da sé, la cinefilia (incluso il dubbio infantile se Liz e Robert Taylor fossero fratelli) e, tra film nel film e citazioni-omaggio, ogni esuberanza post-moderna e metalinguistica possibile, mentre la realtà sfonda la quarta parete di un teatro pronto a rispecchiarla (anche se, stavolta, non si recita né Cocteau né Williams). Ciliegina sulla torta, la coscrizione degli attori-feticcio, da un commovente Antonio Banderas, sexy-con-gli-acciacchi, a Julieta Serrano che spezza gli artigli al consueto personaggio della madre-arpia, da Penélope Cruz a Cecilia Roth, e il cameo del buon Agustín (in veste talare).

Eppure, Dolor y gloria, rispetto alle opere degli ultimi lustri che sono spesso apparse meri allineamenti di cliché autoriali, raggiunge una profondità superiore. Che ogni uomo sia un bolo di ricordi e il passato ci abiti e possieda è qualcosa che Almodóvar va ripetendo con insistenza da tempo. Anche qui, il tema della memoria è centrale. Quando appare  sullo schermo, Salvador è immerso nelle acque di una piscina, a suggerire l’impellente pulsione di un regressus ad uterum (e, infatti, la prima rimembranza riguarderà la madre), di un ritorno alla verità di sé che solo nei propri trascorsi potrà trovare. Ma la memoria, in Dolor y gloria, non è solo dannazione, è la salvezza dell’artista che, proprio inabissandosi in se stesso, riuscirà a superare la paralisi psichica, fisica, creativa che lo affligge e che la fotografia (sempre José Luis Alcaine) rende bene rinunciando ai carrelli e alle panoramiche sfoggiati altrove per lesinare sulla profondità di campo e comprimere le figure in inquadrature soffocanti. Sotto il segno dell’auto-fiction, Almodóvar, ricordando e mistificando, si espone, con una sincerità struggente, in un atto di fede nelle virtù terapeutiche dell’arte e nel generoso denudamento di una carne sofferente, trémula. La sua, la nostra. [Dario Gigante]


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