“Puro, è la parola. Richiama un fuoco.

Ed ecco che, vi è là cenere, prende posto facendo posto,

per lasciar intendere: nulla avrà avuto luogo se non il luogo.

Vi è là cenere: vi è luogo.”

(Jacques Derrida)

Terzo capitolo di un’ideale trilogia dell’appartamento, che ha visto come primi due episodi Dulcinea, messo in scena nel tempo di un’ora, girato in pellicola 16 mm e interamente di finzione, e Pierino, filmato nel periodo di un anno, girato in VHS e rigorosamente documentaristico, l’ultimo lavoro di Luca Ferri, La casa dell’amore, attraverso il supporto digitale e un connubio tra realtà e (ri)costruizione, prende forma durante l’ipotetico periodo di una settimana.

Votato alla forma come postulato positivo, con quest’ultima opera Ferri compie un ulteriore passo avanti nel delineare una poetica che si dimostra in costante cambiamento e allo stesso tempo punta a ribadire un’idea di fondo, quella di un cinema inteso come arte moderna fine a se stessa, e quindi più pura per definizione.

La casa è quella di Bianca, donna nel corpo di un uomo che per vivere si vende alle perversioni più disparate di ogni avventore che la contatta attraverso un numero di telefono trovato su un sito di incontri; l’amore è quello di Bianca per Natasha, transessuale come lei e lontana dall’Italia da due anni. Operando su un costrutto sottotestuale inverso e allo stesso tempo complementare rispetto a Dulcinea, dove un contesto borghese e di “amor cortese” veniva decostruito dalla sovversione del feticismo, in La casa dell’amore l’ambientazione spoglia di un’abitazione priva di elettricità e illuminata a luce naturale di giorno e a lume di candela di notte, diventa un luogo di attesa per un amore sincero e affettuoso, tra pratiche sessuali sadomasochistiche, cene tra amici e telefonate con i clienti o con il proprio amore oltreoceano.

A un primo livello di lettura questa nuova opera conferma un cambiamento di prospettiva rispetto al rapporto tra i personaggi e il loro regista, il quale già con Pierino aveva abbandonato l’osservazione apparentemente quasi entomologica dei propri soggetti, regalandosi a un’affezione più compartecipativa, anche se non per questo meno rigorosa nel senso formale. Cercando però di andare oltre e muovendosi più in profondità nell’analisi traspare come, forse mai in modo così dichiarato come in questo film, la concezione di cinema di Luca Ferri come autore sia da sempre coerente, pur se esplicata sotto chiavi di interpretazione a volte mutevoli, e tendente verso un fine ben pensato sin dagli inizi: il cinema come origine, la storia come conseguenza. Ogni scelta di argomento, ogni mappatura formale, delinea sempre una storia scelta per veicolare il cinema, e mai un cinema atto a veicolare una storia. L’immagine nel cinema di Ferri non è un mezzo, non è un supporto, ma è il centro, mentre la drammaturgia è, quasi topograficamente, un sentiero al servizio del contenente, che mai prima d’ora nel cinema italiano recente era stato in grado di diventare contenuto in un senso così convincente. Per questo motivo nel finale l’immagine viene deprivata dell’audio e immediatamente dopo l’audio si riaccende a schermo nero, con lo scopo persistente di trasmettere la propria presenza, per comunicare l’impastarsi tra la realtà e la sua estensione ontologica. Il senso di mancanza che Bianca prova nei confronti di Natasha è anche la mancanza dell’immagine, che in quanto tale subisce i colpi della realtà che non si limita a rappresentare, ma a incarnare.

Se per Luigi Ghirri “la fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma è un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari”, e per Jacques Derrida tutto ciò che non è realtà è la sua traccia, come il fuoco e la sua cenere, per Ferri il cinema è il reale che si autoreplica e che nelle sue infinite possibilità riesce a non essere inferiore alla sua prima versione, al suo fuoco, e allo stesso tempo, grazie alle possibilità della tecnica, trova la maniera di creare i mondi immaginari al di là della semplice riproduzione. A discendere da questo assunto quindi, nella scena in cui Bianca viene apparecchiata come una tavola imbandita (e inevitabilmente oggettificata) e un suo cliente davanti a lei si profonde in simbologie e sottotesti relazionati al consumo indiscriminato del suo corpo e alla mortificazione del suo spirito, Ferri decide coscientemente di porre il cinema davanti alla morale, non subordinando l’uno all’altra, ma dividendoli senza che il giudizio dall’alto verso il basso semplifichi e comprometta la sacralità di entrambi.

Da Abacuc a Colombi, da Ab ovo a Dulcinea, fino ad arrivare a La casa dell’amore, per questo grande cineasta il cinema come causa è un atto, molto ben nascosto proprio perché senza compromessi, di incondizionato amore per la vita e per i personaggi che lo attraversano, senza sapere cosa troveranno alla fine del loro cammino, verso i titoli di coda.