Danilo Caputo è un giovane regista che con i suoi primi due film, La mezza stagione e Semina il vento, quest’ultimo presentato nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale, affonda il suo sguardo nell’entroterra pugliese e nelle sue contraddizioni, svelandoci le luci e le ombre di un territorio diviso tra passato e futuro, tra la saggezza dell’equilibrio conservativo e la scelleratezza di un cieco profitto demolitore. In mezzo a questo squarcio di una terra ai margini, che ha sepolto la sua atavica bellezza, c’è una guerra silente, tra una nuova generazione che lotta per l’equilibrio, tra tante incertezze, e una vecchia generazione, stanca e rancorosa, uccisa dal proprio pragmatismo. Cesare e Nica, i protagonisti dei due film, camminano lungo i bordi di questi luoghi/nonluoghi, dove traspare un’idea di avvenire che spesso non coincide con l’idea di futuro.

 

Sia in Semina il vento che in La mezza stagione arriva forte la sensazione di un contrasto generazionale, in cui i nostri padri ricoprono un ruolo quasi distruttivo del territorio e del bene comune. Un problema molto sentito soprattutto al sud,  e in questo senso i tuoi film sembrano farsi testimoni di una voglia di rivoluzione da parte della nostra generazione, che in entrambe le storie che racconti ha un contatto più profondo ed equilibrato con l’ambiente che abita. Ti senti parte di questo conflitto?

Quando nel 2010 ho iniziato a scrivere La mezza stagione, nel pieno della lunga crisi economica, sentivo che la mia generazione non faceva che scontrarsi contro porte chiuse, mentre dall’altra parte c’era una generazione che si teneva saldamente stretta a tutti i privilegi accumulati negli anni del boom. I personaggi di quel film provavano a cambiare le cose ma poi non ci riuscivano e si rassegnavano all’idea che tutto dovesse restare com’era. Col mio film successivo ho avuto invece voglia di immaginare un personaggio che è incapace di rassegnarsi. In Semina il vento, il conflitto generazionale non ruota attorno a una disparità economica. Si tratta piuttosto di uno scontro di visioni sul nostro posto nel mondo. È il divario che separa una generazione di genitori cresciuti con le false lusinghe del progresso industriale da una generazione di figli cresciuti constatandone i risultati nefasti. Nica non vuole una fetta della torta, non cerca di accedere al presunto benessere delle generazioni che l’hanno preceduta. Vuole mettere in discussione quell’idea stessa di benessere così come i princìpi di una mentalità predatoria ed estrattivista che considera la natura come una risorsa da sfruttare. Nica ha una consapevolezza diversa, si sente parte della natura e per questo vuole trovare una nuova via.

Lo scenario dei tuoi racconti è sempre la provincia non vista della Puglia, una regione estremamente turistica ma anche decisamente più composita e complessa di quello che può trasparire dalle foto dei turisti a Gallipoli. Nei tuoi film vediamo un entroterra pugliese abbandonato a se stesso, immerso in un assoluto presente senza scampo, in cui le persone rimangono inghiottite e a causa del quale o non riescono ad andarsene o se ci riescono vengono viste come traditrici. È effettivamente così?

Sono cresciuto in un paesino vicino Taranto ed è lì che ritorno sempre. È la mia terra, la mia casa. Però ho vissuto anche molto all’estero e quando fuori dico che sono pugliese la gente immagina che io viva in un trullo circondato dagli ulivi a pochi passi dal mare. Non è solo colpa del turismo, ma anche di luoghi comuni riproposti da un certo cinema italiano. Trovo che la verità sia più interessante. E più fotogenica. Taranto è un posto di contrasti lancinanti. Ci sono la macchia mediterranea e le luci della fabbrica, il mare e il fumo che si perde nel cielo, i falò di primavera e le fiamme della raffineria. C’è tutto, bellezza e orrore, tradizioni arcaiche e industrializzazione, tutto in un solo posto. Queste immagini contrastate fanno profondamente parte di me e con i miei film ho provato a restituire la mia immagine interiore di questi posti, cercando di tenermi lontano dalle immagini da cartolina e dall’idealizzare un Sud pittoresco e bucolico che forse è esistito solo nella nostra immaginazione. Quando torno a casa non credo di essere percepito come un traditore, al contrario, la rassegnazione è così dilagante che quando scoprono che vivo all’estero le persone mi dicono sempre di aver fatto la scelta giusta. Ma in cuor mio non sono mai riuscito a tagliare davvero il cordone ombelicale che mi lega alla mia parte di Puglia.

Sia in Semina il vento che in La mezza stagione hai collaborato con Espedito Chionna, che interpreta sempre questo ruolo di adulto in crisi in modo estremamente convincente. Io sono di origini pugliesi e ho rivisto tantissimo nei suoi due personaggi un certo tipo di uomo pugliese, qualcuno di estremamente pragmatico, fino all’apatia, che ha smesso da tempo di tenere alla propria terra, forse perché troppo corroso dalle delusioni economiche e sociali che per anni hanno martoriato una parte della provincia pugliese. Come sei entrato in contatto con lui e come sei riuscito a ottenere da parte sua un’interpretazione così naturale e convincente?

Ho incontrato Espedito nel 2011, quando cercavo qualcuno per il ruolo di Giovanni ne La mezza stagione. Quel personaggio era ispirato a un racconto di Pavese e cercavo qualcuno con una presenza tale da apparire come un estraneo anche in casa propria, qualità che ho trovato in Espedito. Lui aveva fatto delle esperienze di teatro brechtiano con Carlo Formigoni, ma mai del cinema. A lui, così con gli altri attori, ho lasciato grande libertà sul testo, chiedendogli di tradurre i dialoghi in una lingua che sentisse sua, lavorando insieme sullo spessore del personaggio e mantenendo sempre una componente di improvvisazione nelle riprese, per cui nessun take è uguale al precedente. Quello che rende così naturali le interpretazioni di Espedito è sicuramente il suo grande intuito e il suo studio della natura umana, ma anche il fatto che, essendo cresciuto in un paese del brindisino, di uomini come Demetrio lui ne ha conosciuti tanti. Demetrio è vittima di una strana patologia moderna, l’inquinamento mentale. È uno che ha rinnegato completamente la civiltà contadina, uno che è diventato dipendente dai soldi della fabbrica e che, adesso che la fabbrica è in crisi, è disposto ad avvelenare la propria terra e se stesso pur di mettere insieme due soldi.

In Semina il vento ti sei concentrato molto sul ruolo atavico della natura, i paesaggi riecheggiano di memoria, una memoria colta paradossalmente dalle persone più giovani, che dovrebbero averne di meno. In un’opera del genere si capisce che l’età non coincide per forza con la memoria, anzi il rischio è che maggiore diventi l’età e maggiore diventi la dimenticanza. Qual è secondo te il modo migliore per conservare la memoria dei luoghi?

Io sono cresciuto senza memoria del passato. I miei nonni li ho conosciuti appena, i miei genitori appartengono a una generazione a cui è stato insegnato a vergognarsi di quel mondo che ha preceduto il boom. Quindi sono cresciuto senza sapere quanto quel mondo fosse diverso da quello di oggi, non avevo idea che ci fosse stata una “mutazione antropologica”, per riprendere l’espressione di Pasolini. È solo da adulto che mi sono reso conto che i miei genitori erano cresciuti in una terra straniera che coincideva solo geograficamente con quella dove ero cresciuto io. Da allora non la smetto di raccogliere informazioni e racconti, mi sento un archeologo che riscopre un mondo che non solo non esiste più ma che è stato rimosso dalla memoria. Nica invece è cresciuta con la nonna e quindi è in una strana posizione, perché è figlia del suo tempo ma ha ereditato una cultura contadina ormai estinta. Lei non vede la natura come qualcosa di esterno a noi. La sua è una visione pre-cartesiana, non-dualista, quasi animista. Nica non vede un uliveto, vede tanti ulivi. Non percepisce quegli alberi come degli oggetti ma come dei soggetti, come degli individui capaci di sentire, di desiderare, di soffrire, di comunicare. Ma al tempo stesso Nica è una scienziata, e la scienza contemporanea sostiene quello che l’animismo aveva intuito: gli animali, gli alberi, persino le piante più minuscole hanno una forma di vita interiore.

E senti di essere riuscito a inserire nel film questa vita interiore?

Credo di sì. All’inizio non sapevamo come mettere in scena questa intimità viscerale con la natura, poi abbiamo capito che l’amore di Nica verso quegli alberi doveva passare attraverso la capacità di ascoltarli. Il crepitio delle cortecce diventa così una forma di linguaggio naturale, un ponte tra uomini e natura. Da questo punto di vista il lavoro con il sound designer danese Peter Albrechtsen è stato fondamentale: grazie a lui siamo riusciti a creare una dimensione sonora che va ben oltre il realismo della presa diretta. Ci sono dei momenti nel film in cui i rumori del mondo scompaiono per fare posto al suono microscopico di qualche insetto, al sibilo di una lumaca, al cigolio di un albero. Nica ascolta il mondo e noi lo ascoltiamo con lei.

C’è un libro che ho accomunato quasi subito al tuo cinema, ed è In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas, in cui c’è una tensione continua tra presente e passato, che per coesistere devono a volte mangiarsi a vicenda, emanando però da questa lotta il senso della bellezza e una promessa di pace. Da questo punto di vista ho trovato perfetto il finale di Semina il vento, in cui alla fine si capisce che questi micro insetti stanno riuscendo a debellare i parassiti che stavano uccidendo gli ulivi. Questa lotta può essere riassunta in parte nel tuo cinema? Il telo che vediamo alla fine può essere anche quindi interpretato come uno schermo?

Il concetto di pace è estraneo alla natura, ma al suo posto vi troviamo l’idea di equilibrio, una delicata armonia di pesi e contrappesi, prede e predatori. Sono delle idee che ho incontrato mentre studiavo manuali di agronomia per la scrittura del film e subito mi sono reso conto che facevano eco in maniera sconcertante a quel conflitto tra generazioni del quale parlavamo prima. Questo equilibrio, che non è pace, è una compresenza quasi ancestrale di vita e morte. Il falò di San Giuseppe che vediamo nel film è un simbolo di questo avvicendamento. Non si tratta di un simbolo cinematografico, ma di un simbolo radicato nella cultura contadina così come nelle civiltà pagane che l’avevano preceduta. Ci ricorda che qualcosa deve morire perché qualcos’altro torni alla vita.