In tempi tristemente postmoderni come questi, sono in tanti a vedere i generi classici come una scorza vuota usa-e-getta, da adottare come mero pretesto per l’espressione del proprio “brand” autoriale. Un esempio per tutti: i fratelli Coen.

Kiyoshi Kurosawa non è tra costoro. Fin dall’inizio della sua carriera, egli si è avvicinato ai generi con umiltà, aderendogli da presso, e solo così trovando per sovrappiù un inconfondibile stile personale. Anche in questo spy movie, che come da rodata tradizione estende all’ambito coniugale le proprie contorsioni narrative intorno a veridicità, professionalità, affidabilità – e soprattutto: fedeltà.

Commerciante della Kobe di inizio anni Quaranta, Yusaku vede male l’appartenenza all’Asse del proprio paese, e cerca di collaborare sottobanco con gli Alleati. Dei suoi maneggi, come pure del suo opaco passato in Manciuria a seguito dell’Impero, è tenuta all’oscuro persino la moglie Satoko. Quando però quest’ultima capisce che Yusaku è dalla parte giusta, Satoko collabora con trasporto ai progetti del marito. I due tenteranno di fuggire in America – ma le sorprese sono dietro l’angolo.

Imbastendo un robusto sistema drammaturgico di ribaltamenti tra fedeltà e tradimento professional-coniugali, Kurosawa si mostra fedele al genere di partenza – ma è solo per tradirlo a propria volta. Appena vengono forniti sufficienti elementi affinché la storia proceda col pilota automatico, Kurosawa si sbilancia sulla mise en scène: diventa presto chiaro, insomma, che quello che gli interessa sono i pattern visivi – soprattutto quelli che informano le scene di confronto a due tra i protagonisti, con i i loro avvicinamenti, allontanamenti e cambi di prospettiva.

Svuotando il genere di ogni contenuto e facendone un puro sistema di forme in movimento, Kurosawa lo predispone a riempirsi di nuovo con un potente sottotesto grazie a cui opera infine la propria personale deviazione dalla purezza delle coordinate del genere. Si tratta di un sottotesto metastorico che al personaggio di Satoko (su cui progressivamente slitta l’identificazione spettatoriale) spetta l’onere di incarnare, e a cui il cinema giapponese ci ha già da tempo abituato: quello per cui, nel momento stesso in cui l’America trionfante si pone come avanguardia dello Spirito della Storia (sì: con le maiuscole del caso) all’alba di Hiroshima, il Giappone l’accoglie traumaticamente e ne rivolta come un guanto l’ottimismo trasformandolo nel suo opposto, ovvero facendo coincidere la Storia con un’altra maiuscola, il Negativo, il tempo visto come perpetua negazione fine a se stessa.

Che sia dunque questo sottotesto metastorico a sopravanzare il genere di partenza quale vero centro di interesse dell’operazione, lo conferma la ricoloritura attraverso cui questo film per la televisione viene adattato per la sala cinematografica: con le sue tinte ocra, verde scuro e marrone chiaro, Wife of a Spy mette ancor più a distanza un passato verso cui il Giappone non può tuttavia permettersi di non guardare se vuole trovare la propria identità. Su questo il film è chiarissimo: nazionalismo e cosmopolitismo sono due lati di una stessa fallace medaglia, e l’identità non va cercata né nell’uno né nell’altro. È nel passato che va cercata: e dunque nel cinema: i materiali documentari rubati da Yusaku là dove la Storia si sta facendo sono meno decisivi di un noir post-espressionista da lui girato amatorialmente. E quando egli si reca al cinema con la moglie, i cinegiornali si rivelano una falsa immagine della Storia, mentre quella vera sono, subito dopo, i film di pura evasione di Sadao Yamanaka – uno dei tanti che hanno cercato una propria identità attraverso il corpo a corpo con il cinema americano, come l’amico Ozu, come lo stesso Kiyoshi Kurosawa del 2020 che si confronta con lo spy movie hollywoodiano. Perché se la Storia arriva a coincidere col Negativo, l’immagine di quest’ultimo è il cinema a restituirla come nient’altro.


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