Piedra Sola accede alla dimensione dell’autentico tramite la dimensione dell’estetico. Sembra paradossale: come può la rappresentazione entrare nel reale se per farlo sforza la dimensione rappresentativa e non quella realistica? Il film di Alejandro Telémaco Tarraf, presentato nel Concorso Internazionale Lungometraggi del 61° Festival dei Popoli, raggiunge e trasmette lo stato materiale dell’esperienza di alcuni pastori andini senza cedere alle estetizzazioni e alle simbolizzazioni, perché riconosce nel loro mondo un’originaria natura indistinta tra autentico ed estetico, tra sensibile e simbolico: l’assenza di un intervallo referenziale arbitrario tra queste due dimensioni.

Non esiste il simbolo nella dimensione vitale dei pastori che il regista racconta, perché la nozione di simbolico presuppone un rimandare (di qualcosa a qualcos’altro) che tra loro non c’è; lo sgozzamento di un lama, la preparazione del suo sangue assieme a delle piante in una ciotola, la pittura dei muri con il sangue sono atti compiuti in nome di un trascendentale che è immanente, un al di là misterico e irraggiungibile (il minaccioso incombere di un pericolo invisibile o la protezione di una divinità che è ovunque non vista) che però si dà qui, ora, nel gesto, nel luogo presente, nell’atto, nell’attuale della terra. Non esiste lo slittamento del senso da un qui poco significativo a un là fondamentale: l’esperienza sensibile dei pastori, il loro legame con la terra, il loro legame con il culto, con le sue leggi, la sua traccia, è un’esperienza di sublimazione estetica.

La rappresentazione, la resa formale di questo legame, non è un’interpolazione arbitraria, ma un’immagine in continuità. Cosa che è difficile da accettare per il mondo occidentale dilaniato dal continuo scetticismo referenziale, dal testardo interrogarsi sulla direzione del significato, in un rimpallo infinito di astrazioni che distanzia l’arte dalla vita e ne fa cosa poco interessata alle cose grezze, più semplici e immediate dell’esperienza. Il significato è qui, l’esperienza del fisico è già estetica, la luce è già un teorema, la pietra già la verità. [Leonardo Strano]

Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/piedra-sola/


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Il movimento della memoria

Prendendo le mosse da una sensazione comune, di assenza di sé potremmo dire, o di confusa frenesia, o ancora di disorientamento che alcuni momenti della vita sembrano concentrare in un susseguirsi di eventi su cui presto perdiamo il controllo, la regista Laura Lamanda costruisce nel suo documentario L’île Des Perdus, presentato nel Concorso Italiano del 61° Festival dei Popoli, un racconto posato ed emozionante di un preciso luogo di Parigi: l’ufficio degli oggetti smarriti.

In un flusso costante e ininterrotto, gli oggetti perduti sulla metropolitana, all’aeroporto, nei taxi della città si affollano in questo singolare ufficio, come il risultato di azioni maldestre, dimenticanze, moti interrotti o ripetizioni meccaniche di gesti. Un vestito da sposa, un iphone, un regalo, un quaderno di appunti. Uno dietro l’altro, raccolti in un archivio temporaneo, gli oggetti  perduti sembrano spegnersi nei discorsi emotivi che solo chi ne è padrone conosce. La camera di Lamanda li cattura in un attimo di sospensione che può trasformarsi nella speranza di un ritrovamento o nell’oblio della distruzione, dopo tre mesi di giacenza.

A partire dalla scelta del luogo, il documentario segue infiniti percorsi che riguardano tanto una poetica degli oggetti quanto, ancor più, una narrazione del rapporto che ciascuno di noi costruisce quotidianamente con la memoria. Lo sguardo della regista è in grado di ridurre il caos prevedibile di un ufficio pubblico in una narrazione calma, che si prende il tempo perché le storie giungano davanti alla camera, e non il contrario. Il risultato è un susseguirsi di inquadrature fisse che immortalano l’impressionante quantità di oggetti, testimonianze e simulacri al tempo stesso.

L’abbondanza dei primi e primissimi piani e un accurato lavoro sul suono riescono a cogliere le più piccole vibrazioni emotive di chi vive la delusione della perdita. Da un lato all’altro del vetro che separa i lavoratori dell’accueil e la folta schiera di persone che si rivolgono all’ufficio per ritrovare i propri oggetti smarriti, una strana complicità riempie il luogo di gesti misurati, il più delle volte appena accennati.

In un vero e proprio esercizio di messa in ordine, L’île Des Perdus tesse le fila di molteplici racconti, intimi come gli oggetti maneggiati dalle mani sconosciute degli operatori, restituendo nella pulizia delle immagini e nell’eleganza dello sguardo lo spazio dimenticato dell’attesa. [Carlotta Centonze]

Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/liles-des-perdus/


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Il possibile dell’inesistente

Nelle immagini di apertura di Tigrero: A Film That Was Never Made, presentato nella sezione Diamonds are Forever del 61° Festival dei Popoli, Samuel Fuller racconta del ciclo mortale con cui sognava di aprire e chiudere Tigrero: un uccello bianco è attaccato da un coccodrillo, che a sua volta è attaccato da un altro alligatore; il sangue delle ferite di entrambi attira dei piranha che riducono gli alligatori in carcasse, fino a quando un altro uccello bianco artiglia un piranha dall’alto e vola via.

Il film non fu mai realizzato, rimase un progetto incompiuto, uno di quegli inesistenti che popolano le storie del cinema alternativo, un possibile verosimile ma mai concretizzatosi; ne rimangono alcune scene, utilizzate in altri film dello stesso Fuller. È curioso che questo documentario di Mika Kaurismäki risponda al ciclo virtuale di Fuller con un altro ciclo, un altro incidere ritmico, e anzi sia esso stesso un nuovo ciclo che si intromette tra l’inizio e la fine pensati per la storia originale.

Scegliendo di raccontare il ritorno di Fuller (con Jim Jarmusch) nelle zone del Mato Grosso tramite tre punti di vista – il materiale registico d’epoca, il girato della macchina a mano di Jarmusch e infine quello di Kaurismaki operatore, collante tra i due – che raccontano lo stesso evento da vari dislivelli, il regista destruttura e ribalta il violento ritorno dell’identico fulleriano. L’impossibilità di una salvezza dalla legge di natura, l’impossibilità del movimento, lo stallo ontologico da cui l’uomo non riesce (pur tentando) a liberarsi, sfuma in un discorso che legge il ritorno come possibile momento salvifico, ricongiungimento dopo la perdita, trasmissione del sapere dopo la morte, protezione del ricordo.

Le tre immagini che vorticano, si incrociano, sfumano una dentro l’altra e si espellono a vicenda per rimontare il film di Fuller non sono così la dietrologia involuta di un qualcosa che non è mai stato compiuto e che termina nell’affermazione di uno stallo insuperabile (il cinema è infine illusione), ma tre punti di vista che si sforzano di riprogrammare il presente tramite il passato (il montaggio è il vero movimento). Kaurismaki e Jarmusch così aprono il romanticismo radicale che riposa nell’apparente insolvibilità della violenza e raccontano una storia possibile dentro a una inesistente. [Leonardo Strano]

Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/tigrero/


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