Davanti a lei, tutte fuggiamo. Non parlarne, bambina.
(c.p., dialoghi con leucò, 1947)
Mi sembra degno di nota che in un festival programmaticamente politico come la Berlinale si facciano strada opere che occupano, rispetto a certe linee di tendenza forti della poetica contemporanea, una posizione di quieta marginalità. Mi riferisco a quel ‘rapidissimo mulinare spiraliforme’ evocato da Marco Grosoli su queste pagine come paradigma di un certo habitus mediatico e narrativo: una combinatoria non-lineare, priva di centri e in continuo slittamento.
Rispetto a questo orizzonte (a cui si avvicinano altri film della rassegna berlinese, peraltro riusciti, come Pepe di Nelson Carlo De Los Santos Arias) vorrei proporre qui una direzione di fuga, che alla ricombinazione anagrammatica oppone una specie di rarefazione preliminare: un gesto, questo, che si muove da un lato verso il frammento e dall’altro verso il sedimento. Si tratta di una strategia di ancoraggio che permette al cinema di (ri)scoprire l’immagine come scandaglio, come strumento di ingaggio ermeneutico, senza peraltro scadere nel frasario ormai logoro del cinema lento.
Un esempio brillante di questa strategia di discorso si ritrova in Matías Piñeiro, cineasta argentino già noto ai lettori di Filmidee (cfr qui e qui) per i suoi film a tema shakespeariano. In Tú me abrasas, Piñeiro prende un testo di Pavese (Spuma d’onda, da Dialoghi con Leucò) e costruisce una risposta sfaccettata, in cui coesistono diverse strategie intertestuali: dall’adattamento libero passando fino all’incorporazione diretta. Alcune di queste strategie avevano già caratterizzato i film shakespeareani: il costante afflato dialogico, l’uso della parola scritta (attraverso inquadrature in dettaglio del testo stampato), il piglio metatestuale (la voce fuori campo che racconta e commenta le origini del film), il plurilinguismo esibito. Qui, tuttavia, Piñeiro abbraccia una struttura più ritmica che narrativa, lasciando che la drammaturgia si mescoli liberamente alle altre forme di messa in quadro, sfilacciando la trama già esile del racconto (l’incontro tra Saffo e la ninfa Britomarti) e spingendo il film nella direzione del saggio poetico.
Colpisce in particolare un elemento di questa strategia discorsiva. Piñeiro accosta i versi saffici, le cui parole sono proposte per incorporazione diretta, attraverso le inquadrature a dettaglio di cui dicevo appena sopra, a fraseggi di montaggio privi di impronta sonora, in cui gli stessi frammenti visivi (una scalinata, un lavandino) si ripetono identici. Questa intuizione formale (ispirata, pare, da una limitazione della macchina da presa a disposizione durante le riprese) mi pare esprimere, seppure in piccolo, un’antitesi al paradigma che evocavo in apertura – quello della combinatoria anagrammatica descritta da Grosoli.
La ripetizione dei fraseggi contamina la temporalità continua e presente del film con quella dell’archivio, o meglio ancora della mnemonica: cioè lo sforzo umano di strappare, trattenere frammenti di senso al tempo. Film e poesia finiscono per occupare la stessa dimensione: una dimensione umanistica, verrebbe da dire filologica, in cui le immagini non sono più elemento di una ricombinatoria, ma sedimento ulteriore, tassello aggiuntivo di una tradizione, in cui la scrittura (letteraria e cinematografica) intesse continue relazioni verticali. In sottile contrapposizione all’acousmetro della voce fuori campo, che offre allo spettatore il film come progetto in espansione orizzontale, questi momenti di silenzio invitano quindi alla (ri)lettura, se non addirittura alla memorizzazione: cioè a dire, alla riattivazione del frammento come traccia storica e vissuta. La stessa polarità ricorre nel testo di Pavese, in cui prende l’aspetto di una dialettica tra tensione desiderante (Saffo) e accettazione trascendente (Britomarti). Ed così che Tú me abrasas si delinea, da ultimo, come un’opera dialettica, in cui il desiderio, ineludibile oscura ossessione umana, è insieme desiderio di trattenere il tempo e di sfuggirne.
Noterella: dico ossessione umana, anche se Piñeiro qui (attraverso la figura di una studentessa di biologia, che ragiona sui batteri che fecondano l’oceano) inserisce una nota tematica che spinge il film verso una dimensione ecologica: anche se a ben vedere sono pur sempre i discorsi ecologici a interessare a Piñeiro (più che i batteri come figura non-umana). Siamo dalle parti di Helena Wittmann, per intenderci. In egual modo l’evocazione del mito non emerge mai, nel film, come una forma epifanica, neppure in direzione di una immanenza riverberante come accade, per citare un altro adattamento pavesiano, in Quei loro incontri di Straub e Huillet (2006).
Più in generale, la tesi che sto cercando di suggerire è che attraverso la distillazione dei materiali di partenza in un universo sì frammentario, ma stratificato e sedimendato – costruito, insomma, tramite un accumulo di segni storici, in una prospettiva vagamente benjaminiana – questi film recuperano al cinema un ruolo di indagine e costruzione del senso verticale, e fortemente umanista, all’interno della dispersione mediale contemporanea.
Questo ruolo, si badi, non passa necessariamente attraverso una strategia di enunciazione saggistica e metatestuale come quella adottata da Piñeiro. Ne fa esempio il film di Margarida Gil, Mãos no fogo, che si colloca saldamente nel formato dell’adattamento, anche se pure qui non mancano evidenti cenni metadiscorsivi.
Ambientato in una casa di campagna nella regione tra i fiumi Douro e Minho, nel Portogallo settentrionale, il film di Gil orchestra una complessa trama di relazioni desideranti, vagamente ispirata al romanzo breve Il giro di vite, di Henry James. Intorno all’archetipo della casa di campagna (insieme idillio perduto e microcosmo sociale, come nota Lyotard) si dispone infatti una gamma di personaggi, caratterizzati in modo più o meno netto da diverse sfumature di desiderio e corporeità: dall’erotismo neurotico e masochista della governante al decadentismo insieme rapace e blasé dello zio-Sardanapalo, passando per la cucina, luogo in cui convergono il peso opprimente di pratiche sedimentate, la materialità di corpi e animali, le gerarchie sociali e il fantasma della violenza.
Su questo canovaccio già pregno Gil introduce la figura di Maria, agente esterno, ma soprattutto documentarista, perciò emblema del cinema come strumento di verità. Il gioco allegorico, in questo senso, è smaccato: nel diario di lavorazione della giovane cineasta leggiamo aforismi come ‘evita ogni giudizio morale’ e ‘guarda le cose una volta sola’. Quando la trema che lo zio, perno oscuro della rete di desiderio, è anch’egli un cine-amatore, l’allegoria si completa. Si delineano due sguardi, due modi di approcciare il cinema e il desiderio: spontaneità e artificio, libertà e controllo. Così da un lato abbiamo il patriarca, il cui desiderio articola uno sguardo cinematografico rapace, possessivo, e dall’altro la giovane, per cui il silenzio è il battito del cuore del mondo, e il desiderio un gioco di luci, riflessi misteriosi, e attimi che fuggono.
Tema comune a entrambi i film (presentati ambedue nella sezione Encounters) è quindi il desiderio, e il ruolo del cinema nei suoi riguardi. Se Piñeiro offre la scrittura cinematografica come anello ulteriore in una catena umana animata dall’impossibilità di sottrarsi a un desiderio che, senza mai diventare trascendente, si fa cornice storica ineludibile dell’agire dell’uomo, Gil come si è visto offre allo spettatore una lettura allegorica, all’interno di un quadro drammaturgico più convenzionale.
Ciò che mi preme sottolineare, tuttavia, è come anche Mãos no fogo parta da una riduzione preliminare. Il film racchiude la messinscena in un orizzonte culturale autosufficiente: quello della cultura portoghese, di cui Gil (che non a caso ha alle spalle studi filologici) orgogliosamente riafferma il carattere contemporaneamente specifico (in termini geografici, linguistici, storici) e universale. In entrambi i casi, quindi, lo spazio letterario serve ai registi a ridurre inizialmente il campo (questo, credo, intende Piñeiro quando dichiara di essere ‘contro l’immaginazione’) per poi, paradossalmente, riaprire al cinema uno spazio di manovra, di indagine, e da ultimo di centralità nel paradima mediale contemporaneo. Così, in Tú me abrasas, lo scarto iniziale verso il frammento, il piccolo gesto umano, finisce per accamparsi come riflessione universale sul desiderio, sullo sfondo di una dimensione ecologica quasi cosmica. In Mãos no fogo il carattere di adattamento letterario permette a Gil di spaziare, slegarsi dai laccioli di tratteggiare un’opposizione tra artificio e leggerezza, e così facendo riaffermare il cinema come strumento di libertà e spontaneità. In entrambi i casi abbiamo a che fare con strategie di messa in quadro che, partendo dai margini, provano ad arginare l’esplosione spiraliforme dell’immaginario contemporaneo. A volte, per riprendere le fila del discorso bisogna concentrare lo sguardo.