Favolacce, secondo lungometraggio di Fabio e Damiano D’Innocenzo, vincitore dell’Orso D’Argento per la miglior sceneggiatura all’ultima Berlinale, è uno dei film italiani più plebiscitariamente apprezzati degli ultimi anni, pur nella travagliata distribuzione online in piena crisi sanitaria. Attraverso questa conversazione, i redattori Mario Blaconà e Marco Longo provano a discutere cosa un film come questo possa rappresentare realmente, al di là dei facili entusiasmi o delle prese di posizione che spesso caratterizzano il dibattito attorno a un’opera cinematografica.

ML: Comincio con le debite scuse: ti ho fatto aspettare. C’era qualcosa in questo film che mi respingeva un po’, senza motivo. Non escludo sia anche il suo tragicomico destino, essere premiato a Berlino e poi ritrovarsi direttamente nel limbo dell’on demand, tra l’altro – “avremmo poi scoperto” – con un sonoro disastrato, ai limiti della comprensione… Ora che l’ho visto, mi viene da dire anzitutto: a questo film bisogna concedere il trattamento che si merita.

MB: Mi pare un ottimo modo di metterla, considerando che il viaggiare troppo spesso su reazioni estreme può far perdere di vista l’opera. Molto di frequente il dibattito sul film diventa il film. Ammesso che fosse questo quello che intendevi con “quello che si merita”.

ML: Sì, mi sembra che in troppi si siano rifugiati in un’ammirazione sperticata e molto goffa verso il talento dei fratelli D’Innocenzo. Talento che, effettivamente, sarebbe altrettanto goffo fingere di non percepire. Eppure sento che a questi due promettenti autori, dal futuro secondo me garantito ma ancora molto poco decifrabile, occorre rivolgere delle domande e dei tentativi di lettura un po’ più netti e coraggiosi dei paternalistici, quasi disperati elogi – della serie “ora il cinema italiano è salvo” – che fino a ieri sera ripercorrevo online. Perché questo film, da un punto di vista critico, può essere un vero e proprio rompicapo. Vorrei partire dal contenuto, se ti va di seguirmi, e ancor di più dal cosiddetto registro: perché in qualche modo, se approcciamo Favolacce come un esperimento di rielaborazione della realtà, dall’ipocrisia dei nuclei piccolo-borghesi alle villette a schiera di una presunta Spinaceto, con tutti i debiti verso quell’italianità (anche cinematografica) che nutre le smorfie e gli umori di questa galleria di personaggi, il film fa veramente acqua da tutte le parti, come la piscina che a un certo punto Elio Germano squarcia in giardino per poi incolpare “gli zingari con i picconi”. Fosse solo questo, sarebbe molto irritante. Non che io voglia difendere le molte ombre che questo approccio alla finzione porta con sé, ma il titolo del film parla chiaro, e infatti questa non è Spinaceto, non è Roma, non è l’Italia e, diciamolo, della realtà non sa, o non vuole, offrire alcun riflesso diretto…

MB: Ma non sa o non vuole? Io credo che questo sia il nucleo da cui partire, per quanto riguarda i dubbi legittimi che possono sorgere su Favolacce. Perché se “non sa” siamo di fronte a un’opera effettivamente ancora acerba in quanto confusa, mentre se “non vuole” ci troviamo davanti a un rifugiarsi nelle comode tasche di un manierismo altrui, neanche proprio. Infatti le primissime sensazioni che emergono guardando un film come questo sono prese solo da altre filmografie.

ML: Io credo che un po’ non sappia e un po’ non voglia. Dopo Seidl e Haneke, che hanno messo in scena l’abiezione restituendola millimetricamente attraverso i corpi e lo scavo delle ferite sociali e antropologiche, Favolacce a confronto risulterebbe da questo punto di vista un film affettatissimo e privo di profondità, dove – e un po’ purtroppo così appare – gli attori vivono nella giustapposizione di situazioni senza sapere se muoversi verso l’artificio o la rappresentazione, la riflessività o la sospensione dell’incredulità (con una fata turchina sui generis che è mediatrice e vittima di tutto e di tutti). Se oggi molti recensori ne trascinano a forza gli episodi verso i corrispettivi della realtà (“la periferia”, “la cultura genitoriale”, “i bambini ci guardano” e via dicendo), io credo che i referenti del film possano essere ben altri. Non so a te, ma a me sono venuti in mente i Coen, come qualcuno ha già scritto, e scomoderei lo stesso Lynch. Insomma, a me sembra che Favolacce sia un incubo di fantascienza, una sorta di buco nero mentale del narratore (inaffidabile) che lo occupa abusivamente con le sue parole fuori campo. Se mai ci fosse la voglia di inseguire l’immagine della realtà, sarebbe nel desiderio di visualizzare la vita di quest’uomo nascosto, che in fondo si rivelerà anche un burattinaio, capace di “ricominciare da zero” il racconto (ci ritorneremo), espressione fantasmatica di un senso di inadeguatezza complessiva verso la lettura del mondo. Chiarito questo, il film ha l’attenzione che altrimenti – almeno con me – perdeva dopo poche scene. Il problema però è: non è tardi anche per questo approccio derealizzante, quasi ludicamente metafisico?

MB: Appoggiarsi a questa tua ultima affermazione può essere molto d’aiuto per cercare di analizzare il film, nello specifico concentrandosi sulla parola “metafisica”. Non è forse ora di disfarsi delle ontologie e delle metafisiche nell’immagine cinematografica? Perché io questa voglia di sovrintendere alla realtà deformando il senso dell’esperienza l’ho sentita molto forte in tutto il film. Prendiamo anche solo l’uso delle musiche cosiddette “alte”.

ML: Ho letto che è stata utilizzata gran parte dell’album Città Notte di Egisto Macchi, senza il quale forse alcune scene avrebbero perso grande forza.

MB: Appunto. Perché non è come quando Pasolini metteva Mahler in sottofondo alla zuffa in Accattone, in quel caso infatti l’esperienza era il punto di partenza imprescindibile, veniva elevata sì, però non emozionalmente, ma quasi semioticamente. La traccia emotiva invece era assicurata dal fatto che lui, il regista, era lì con loro, con una soggettiva libera indiretta che quasi usciva dallo schermo. In Favolacce invece l’esperienza non è il punto di partenza, ma lo è invece la sua immagine, potrei dire il suo spettacolo, una pagina di diario distopica che però non è cosciente di essere solo forma di una sostanza derivativa. Se lo fosse, se fosse cosciente intendo, ci vedrei forse più interesse (ma con i se non si fanno i film), e noterei veramente una visione appaiata con la migliore new wave greca. Ma qui in effetti c’è proprio la voglia di appoggiarsi a Lanthimos o ad Avranas per poi arrivare, come hai detto tu, a Velluto Blu e a Non è un paese per vecchi. Ma se i Coen mettono in scena la morte violenta di un genere filmico e del mito della frontiera, cosa fanno i D’Innocenzo? Forse un indizio lo troviamo in questa voce narrante/deus ex machina che dichiara la natura entomologica dello sguardo extradiegetico. Ma perché? Cui prodest? Abbiamo capito che non raccontano veramente una specifica realtà, ma che non mostrano chiaramente neanche la sua destrutturazione. Il mio dubbio, ed è veramente un dubbio e in questo chiedo anche il tuo aiuto, è che si siano persi nella composizione delle inquadrature, nel budget di produzione, nella grafica delle locandine, e negli assoli d’attore, come quando sul finale Elio Germano impazzisce nel letto mentre la moglie scende in cucina e trova quel che trova. Mi sembra che siamo davanti alle miopie più lampanti della parolaccia più terribile del ventunesimo secolo: postmoderno.

ML: Tutto il discorso sulla produzione sarebbe da destrutturare per davvero. Ci mancano gli elementi e non vorrei mai sottostimare gli sforzi delle tante persone che lavorano a un film. Davanti a Favolacce non puoi fare a meno di sentire la libertà creativa degli autori, schedulabile certo ma quasi assoluta, e al contempo però tutta l’ineludibile macchina produttiva del film pensato per essere la mosca bianca di una selezione festivaliera, e per la ricaduta che questo genera sulla sala, poster e interviste inclusi. È naturalmente legittimo, anzi mi auguro che il film possa arrivare ai cinema dove io per primo vorrei rivederlo – sono sicuro sia un’altra esperienza – ma quello che voglio dire, con un po’ di malizia che però non è contro i D’Innocenzo, è che ormai l’impronta produttiva è quella lì, è riconoscibile, sono le stesse prassi e intenzioni, gli stessi processi, le stesse esche per gli stessi mari. Nulla di davvero sovversivo o inedito. Io sono convinto che se mai i D’Innocenzo si perderanno nei loro eccessi, sarà per colpa di questo paternalistico fattore X, troppo grande o troppo forte per non fagocitarti almeno un po’, quantomeno sul piano dell’identità autoriale, e che alla fine contagia anche la ricezione: conta il “fenomeno D’Innocenzo”, il film è parte del fenomeno. Mi viene in mente anche l’ultimo Garrone, almeno da Dogman in poi, non credo di dire nulla di strano: bisogna stare attenti ai registi che diventano brand, perché anche quando fanno buoni film, si avrà la sensazione di opere molto chiuse in se stesse. Sulla possibilità poi che l’industria italiana ne tragga davvero ossigeno e beneficio, non saprei. Comunque, tornando al punto: vorrei chiederti come hai sentito l’evoluzione da La terra dell’abbastanza a Favolacce, e se retrospettivamente possiamo dire qualcosa in più su questo esordio altrettanto osannato.

MB: Sai, parliamo di due film solo apparentemente collegati da un’evoluzione poetica, ma in realtà completamente diversi. Personalmente nessuno dei due mi ha particolarmente entusiasmato, però come opera prima La terra dell’abbastanza poteva essere un buon esercizio, inserendosi in quel filone di cinema di periferia italiano in cui rientrano molti film tutto sommato riusciti, come Alì dagli occhi azzurri, Là-bas – Educazione criminale, Bangla, Sole cuore amore e anche Non essere cattivo. Film messi in piedi con budget anche un po’ precari, con modeste pretese di autorialità o di dislocazione del genere, ma che hanno il pregio sincero di voler bene ai propri protagonisti, e in virtù di questo bene riescono a tenere insieme una drammaturgia coerente. Con Favolacce c’è stata probabilmente un’accelerazione forzosa, molto ambiziosa dal punto di vista tecnico ed estetico, che ha trovato però un’idea di cinema non abbastanza matura per costruire uno sguardo effettivamente stabile. Da qui un sincretismo estremo che secondo me imprigiona l’opera in un manierismo che ne annienta ogni afflato di possibile sincerità. Entrambi i film raccontano la morte come fattore ineludibile, ma se prendiamo le scene in questione de La terra dell’abbastanza e le paragoniamo a Favolacce percepiremo una precisa differenza nella distanza empatica. Mentre il primo infatti è un film che nella sua modestia tutto sommato mi commuove, il secondo nella sua “supposta avanguardia” mi lascia freddo.

ML: È legittimo a mio avviso parlare di una sorta di capovolgimento di approcci ed esiti tra La terra dell’abbastanza e Favolacce, e più puntualmente di come in Favolacce l’attitudine teorematica e chiusa della scrittura dei D’Innocenzo, disancorandosi al pessimismo sociale dell’esordio, finisca per nutrire un nichilismo un po’ vuoto, dove anche la posizione degli autori dalla parte di un’infanzia immaginifica e contro l’orrore irresponsabile di modelli adulti allo sfascio, sempre che sia effettivamente fondata, poco conta rispetto a un generale, insistito, gesto espressionista al limiti della maniera.

MB: Torniamo sempre al concetto di manierismo quando discutiamo del cinema italiano degli ultimi vent’anni. Lungi da me sminuire la portata dei nostri autori, ma la questione rimane, perché quando chi ha il compito di creare un’immagine resistente al consumo (tutto poi dipende dai casi) viene in poco tempo fagocitato dalla sua stessa poetica, quello che resta è un’educazione al senso dell’immagine monca, mai effettivamente sovversiva. E a proposito di questo, per tornare al narratore fuori campo in Favolacce, non lo vedi un po’ come lo sbandieratore orgoglioso, ma inconsapevole, di questa maniera?

ML: Davvero si tratta di un film che mette in scena il flusso di coscienza che presiede all’invenzione stessa delle storie. Se ci propone qualche domanda aperta, questa potrebbe essere: è davvero possibile raccontare le vite degli altri? Una domanda che il cinema italiano non farebbe male a porsi. Qui non c’è una vera e propria risposta, perché l’espediente che chiude il racconto – un ricominciare daccapo, dalla stessa notizia in tv, che procura l’epifania di una strozzatura del senso, tutta giocata sul déjà-vu inebetito di uno dei protagonisti – assomiglia più a un omaggio a qualche divinità estranea alla vita, che a un desiderio di abbracciare l’umano nel suo percorso erratico di sopravvivenza alle “trame” di cui si ritrova tragicamente prigioniero.