“Vuoi essere un po’ ragionevole?”

e Bartleby rispose: “Preferirei non essere un po’ ragionevole”

(Herman Melville, Bartleby lo scrivano)

Alla fine degli anni ’70, precisamente dopo la morte di Pasolini e l’uscita nelle sale di Salò, Moravia proponeva al lettore del Corriere della Sera una nuova definizione di cinema: il genere “didattico-rituale”. Accomunando le 120 giornate di Sodoma con altre pellicole recenti, come La grande abbuffata e Todo Modo, li definì «film svolti alla maniera di apologhi morali o di allegorie nei quali la storia serve da supporto ad un significato più o meno preciso ed educativo; misteri cinematografici sia per il loro andamento simbolico e rituale sia per la loro volontà didascalica». 

In primis l’unità di luogo: tutti si svolgono in spazi chiusi, da cui è impossibile evadere, per imposizione costretta o volontaria. Attraverso questi austeri palcoscenici si muovono i personaggi, figure allegoriche di una società corrotta e sadica. In secondo tempo la dimensione “rituale”, cioè immutabile nella sua reiterazione sacrale quanto macabra. Quello messo in scena da Ferreri era un banchetto orgiastico e decadente, simile ai gironi sadiani e violenti di Pasolini, dove sul finale giunge inesorabile la morte.

Potremmo assimilare il nuovo film di Bonifacio Angius, presentato a Locarno 74 nella sezione Concorso internazionale, a questa categoria, se non fosse che il piano morale, e quindi “didattico”, è totalmente saltato. I protagonisti de I giganti sono cinque uomini disperati, che decidono di rinchiudersi in una casa isolata nella campagna sarda per autodistruggersi. La differenza da La grande abbuffata? I protagonisti non rappresentano altro che se stessi. Scavalcando la recente esperienza della quarantena (tutt’altro che irrilevante), il male a cui sono sottoposti non è assimilabile in nessuna categoria ideologica né contro alcuna classe sociale, nè le figure impersonificano virtualmente alcun cattivo modello da distruggere o criticare. Tutto il contrario di quel che ha provato a realizzare l’ambizioso Tarantino con The Hateful EightI personaggi de I giganti sono essenzialmente uomini senza speranza affondati nell’abisso, cacciatori di taglie smarriti.

Proprio da questo atteggiamento amorale nasce la radicalità del film, dunque difficile da digerire e categorizzare. Angius ci riporta su un piano della narrazione statico e selvatico, dove l’accenno ad un possibile canovaccio si riduce al susseguirsi di battute balbuzienti, inevitabilmente rivolte ad una fine già incombente dall’inizio. Con febbrile maestria, adottando uno stile di recitazione degno del Cassavetes più anarchico, veniamo trascinati nel banchetto di droghe e autodistruzione tra uomini spenti, che a tratti ci fanno sorridere per la loro ignoranza, ma subito ci sconvolgono per la loro nudità. Come possiamo giudicare il protagonista, interpretato dallo stesso regista, un uomo a cui è stata strappata la figlia, o quello silenzioso e inebetito di chi è stato segnato per sempre da un amore non corrisposto? Ne I giganti aleggia il fantasma opprimente di una sconfitta invalicabile, dell’incapacità di riportare in vita se stessi. Della mancanza di una certezza che non ci sa rendere più umani. Per questo i personaggi sono come giganti, creature sepolte per sempre nel cuore della terra, presenti soltanto grazie al racconto delle loro gesta sanguinarie e bellicose. Un impulso violento e ancestrale, l’unica risorsa per definirsi ancora vivi.

Un film drammaticamente popolato da soli uomini, in cui la presenza fisica della donna viene subito ripudiata proprio perché essa è la sola figura ancora cosciente, in grado di prendere una decisione. Qualcuno ha parlato di maschilismo. Pensiamo che Angius sia l’unico capace di raccontare la decadenza machista dell’uomo moderno (antico?) con la stessa empatia col quale dovremmo tutti saper guardare negli occhi i nostri demoni. Proprio per questo suo senso di inadeguatezza tutt’altro che marginale, I giganti riesce ad essere scandaloso e incompreso tanto quanto la poetica di un Piero Ciampi, dove la qualità disperata del contenuto genera una mutazione indigesta della forma, a cavallo fra prosa e canzone. Così come ci viene servito il film, un cocktail letale di generi fra il western e il teatro (Sergio Leone ma anche, forse inconsapevolmente, le atmosfere di Almanacco d’autunno e Perdizione di Béla Tarr), per non parlare delle performance attoriali, in bilico tra l’epico e lo sproloquio, e dalla colonna sonora che spazia dalla rumba cubana alla musica classica. Contrasto e contrazione immortalati in uno sguardo fuori dalla finestra, proiettato nell’oscurità del nostro mondo interiore, ancorato ad una scelta che avremmo dovuto compiere senza essere in grado di farlo. Senza aver più la minima speranza di trovare una ragione nelle cose.

Ho una folle tentazione di fermarmi a una stazione, senza amici e senza amore.
Mio fratello è all’ospedale, sono giorni che sta male. La madre non l’ha più.
Anche Pino è separato, Elio al gioco si è sparato. Mi stupisco sempre più.
Io vado, quando sono abbandonato vado in cerca di una donna. Senza danni.
Sento, quelle volte che non pago che rimane pure amore. Per un′ora.
Ma il mattino mi consegna, Francescangelo drogato. Non mi conosce più.
Per vederci un poco chiaro bevo un litro molto amaro. Sono dentro a un osteria.

(Piero Ciampi, Il Natale è il 24)