Ci sono odori che non dimentichiamo mai. La puzza del povero che stanco si abbandona al sonno sul tram di una qualsiasi metropoli contemporanea, è qualcosa di cui abbiamo fatto esperienza e serbiamo come retaggio di un dislivello sociale sempre presente. Da questo dettaglio, evidente e ai limiti della banalità, nasce la distanza di classe che separa la famiglia dei sobborghi da quella che abita in una villa dalle affascinanti architetture in Parasite di Bong Joon-ho, film che si candida a vincere la Palma d’Oro a Cannes. Due nuclei familiari speculari: un padre, una madre, due figli; ma mentre una famiglia arranca vivendo in uno scantinato e confezionando scatole per la consegna della pizza, l’altra è volta a elevare il futuro dei propri figli attraverso un accompagnamento giornaliero. È proprio grazie a questa necessità che i “poveri” fanno ingresso nella dimora incantata dei borghesi, sostituendosi progressivamente a ogni figura domestica: il tutore, la babysitter, l’autista e la governante. Così i parassiti prendono possesso della casa, ricreando una nuova struttura familiare (e anche di potere) all’interno delle mura in cui regna incondizionata la supremazia di casta. Ma cosa succede quando i due sogni sociali si scontrano?

Sembrerebbe tendere a questo contrasto, il nuovo film di Bong Joon-ho (che si conferma tra i più affascinanti e necessari indagatori del conflitto tra il codice sociale e l’istinto primordiale), eppure quasi a metà delle due ore e mezza, il regista coreano scardina le attese per dimostrare quanto il modello di casa che propone custodisca in sé l’intero senso del film. La villa, location principale, non contiene soltanto una doppia struttura sociale, in cui i poveri sono pronti a nascondersi dietro alle porte e sotto ai mobili (proprio come scarafaggi), ma una terza in cui persone senza alcuna speranza nel futuro hanno costruito una loro abitazione letteralmente sotto quella dei padroni. Geniale come soltanto le sceneggiature dei grandi film classici sanno essere, Parasite è un film in cui ogni dettaglio è curato al fine di svelare un ulteriore senso nella seconda parte: persino la fascinazione del piccolo artista di casa per gli indiani diventerà un’accusa manifesta nella carneficina finale.

In un concorso popolato da opere che incarnano un’idea di struttura sociale molto forte, Parasite si delinea come un compiuto meccanismo in grado di portare in superficie un disagio sociale che si tende a rimuovere, servendosi della cultura per celare i fantasmi del capitale. Materia oscura che riemerge nei disegni del piccolo erede ed illumina il finale di una luminosità carica di affetti umani. [Daniela Persico]


PIOGGIA NERA

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La filmografia di Lav Diaz abbraccia la Storia delle Filippine, i suoi corsi e ricorsi, con un movimento oscillatorio il cui epicentro è rappresentato dalla dittatura di Marcos e dalla legge marziale, cui il cineasta filippino ha dedicato tre dei suoi film, Evolution of a Filipino Family (2004), From What Is Before (2014) e Season of the Devil (2018). Dopo aver toccato il punto più lontano nel passato, con la fine Ottocento di A Lullaby to the Sorrowful Mystery (2016), ora il cineasta filippino giunge a quello più lontano nel futuro, il 2034 di The Halt, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs. Operazione non nuova per il cineasta, che già ambientava in un futuro prossimo uno dei suoi primi film, Hesus the Revolutionary (2002).

Nel 2034 le Filippine sono perennemente bagnate da una pioggia alla Blade Runner e le strade delle città pervase e controllate dai droni spia delle autorità governative, alla Essi vivono. Il paese è sprofondato nel buio a causa di una cappa di ceneri vulcaniche e divampa un’epidemia, secondo la tipica raffigurazione del paese malato offerta dal regista. Il male attacca anche una delle due amanti di Martha Officio, braccio destro della dittatura, mentre una setta si ritrova in un macello a bere sangue, linfa corporea che presiede al trasporto fisiologico dell’ossigeno. La storia si ripete, come raccontato in A Lullaby to the Sorrowful Mystery: le Filippine sono ancora soggiogate da un folle satrapo. Lav Diaz porta nel futuro la figura più traumatica del suo cinema e della sua vita, quella di Ferdinand Marcos, incarnato nel personaggio del dittatore Navarra, in cui si possono trovare anche echi dell’attuale presidente Duterte. Navarra è una figura grottesca, emblema della banalità del male: si veste come la figura edipica della madre, ha una collezione di piante grasse che chiama per nome e un serraglio privato con struzzi che scorrazzano.

Con The Halt, Lav Diaz torna anche alla struttura a incastro di altri suoi film, qui inglobati (si pensi solo alla trasmissione radiofonica che cita West Side Avenue [2001]) e a loro volta capaci di inglobare la storia del paese; e ricostruisce un altro episodio fondante della sua formazione artistica: l’incidente del motociclista che ricorda la morte del cineasta Lino Brocka. Torna poi l’idea di cinema come rifrazione di arti: la letteratura, con il libro sul paese senz’anima e l’associazione di aiuto ai bambini di strada, e la musica, con il gruppo che richiama la compagine musicale stessa del regista.

Nella pioggia nera incessante, esplicito riferimento anche letterario e cinematografico (il film di Imamura) a Hiroshima e Nagasaki, Lav Diaz mette in scena ancora una volta le tensioni e l’eterna violenza materica cui il suo paese sembra condannato. [Giampiero Raganelli]


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