Sui titoli di coda di Bad Luck Banging or Loony Porn, Orso d’oro alla Berlinale 2021, Radu Jude ringrazia, tra molti numi tutelari, anche Siegfried Kracauer. L’influsso di questo filosofo (e critico cinematografico) tedesco nel cinema di Jude non può essere taciuto: neanche il regista stesso lo tiene nascosto, al punto che, quando nella seconda parte del film dedicata alle “definizioni” il termine da definire è “Cinema”, è proprio una frase di Kracauer (da “Film: Ritorno alla realtà fisica”) a essere citata, o meglio, incorporata:

“Abbiamo imparato a scuola la storia della Gorgone Medusa dal volto così orribile, coi denti enormi e la lingua sporgente, che bastava la sua vista per tramutare in pietre uomini e animali. Quando Atena istigò Perseo a uccidere il mostro, lo avvertì di non guardarlo mai direttamente in faccia, ma soltanto riflesso nello scudo lucente ch’ella gli aveva donato. Seguendo il suo consiglio, Perseo tagliò la testa della Medusa con la falce, datagli da Ermete. La morale del mito è naturalmente che noi non vediamo, e non possiamo vedere le cose veramente orride perché la paura ci paralizza e ci rende ciechi; potremo sapere che aspetto hanno soltanto guardando immagini che ne riproducono fedelmente l’aspetto. Queste immagini non hanno nulla in comune con le immaginose raffigurazioni che ci dà l’artista di un terrore non visto, ma assomigliano al riflesso d’uno specchio. Ora, di tutti i mezzi esistenti, il cinema soltanto rispecchia veramente la natura. Ecco perché ne dipendiamo per vedervi riflesse cose che ci trasformerebbero in pietra se mai le incontrassimo nella vita reale. Lo schermo cinematografico è il lucido scudo di Atena.”

È difficile pensare al cinema di Jude come qualcosa di diverso dal lucido scudo di Atena grazie al quale cose incomprensibili possono essere comprese tramite un riflesso che le rappresenta, una mediazione riflessiva, un passaggio critico. Sempre di Kracauer è il luogo estetico del cinema come specchio, ma specchio in qualità di oggetto distorcente che può rappresentare la realtà, già di per sé distorta, solo perché veicolo di una doppia negazione liberatrice: il mezzo distorcente compromette il disegno compromesso e indecifrabile del mondo, ottenendo così, da una somma di oscuramenti, un ritaglio di luce. Questa doppia distorsione è propria dell’immagine di Jude, che, per quanto sempre molto firmata da un rigido controllo formale (dalla satira al teatro brechtiano all’uso di materiale d’archivio), genera meravigliose sensazioni di libertà e ampi spazi di pensiero e possibilità, aperture di varchi per lo sguardo. Si prenda questo Bad Luck Banging or Loony Porn, un lavoro dove il processo rappresentativo della distorsione in cerca di verità è analizzato lungo tutto il suo sviluppo: prima nascosta nella prima parte sotto immagini “deboli” e spunti narrativi in continuità con il nostro contatto con il quotidiano – anche pandemico; poi dichiarata nella seconda in forma di definizioni montate assieme tramite un bricolage variopinto; infine ripensata nella terza, naturale sintesi di una dialettica al lavoro per ottenere una rappresentazione in tensione. Emi (interpretata da Katia Pascariu), una professoressa, gira un filmato porno amatoriale con il proprio compagno e il video, sottratto al suo controllo, rimbalza fino ai genitori della scuola dove insegna: la prima parte è il pedinamento della professoressa lungo il paesaggio urbano della Romania odierna, la seconda un catalogo di definizioni attinenti alla vicenda, e la terza l’assurdo processo alle intenzioni della professoressa da parte dei genitori e della preside della sua scuola. In questi tre momenti Jude scrive un trattatello sulla funzione distorcente del cinema come specchio documentario e/o finzionale, tenendo ben presente la forma assunta nel contemporaneo dai mostruosi tentacoli della Medusa: la trasformazione, raccontata lucidamente dalla scuola critica francofortese e dagli studi sul postmoderno, del mondo in un complesso completamente mediatizzato, dominato dal capitale e dal digitale, in cui le vite sono ormai sostituite dalla loro immagine, che è unità minima di un mondo autonomo e automatizzato, in una visione che ha fatto slittare l’essere sull’apparire.

Come fare i conti con un nemico che non è più un corpo mostruoso, visibile tramite riflesso, ma immagine che ormai ha perso contatto con la realtà a cui prima rimandava, cioè riflesso autonomo esso stesso? La doppia negazione funziona con una realtà che non è più reale, oppure si incanta in un cortocircuito, in cui si prova a spegnere fuoco con fuoco? Qui si gioca per il cinema la possibilità di redimere il reale, malgrado il reale sia ormai lontanissimo, non più visibile, irrecuperabile e malgrado l’immagine, unità minima del cinema, sia la responsabile di questo allontanamento. Se per Kracauer, almeno nella parte ottimista del suo pensiero, il cinema è segno che la modernità sia superabile e debba essere superata proprio dai mezzi come il cinema, per Jude la possibilità che quest’ultimo possa redimire la realtà dalla trappola in cui l’immagine l’ha posta è sempre aperta ma anche sempre minacciata, ed è proprio per questo che non dovrà mai distanziarsi dalla lotta. Il suo cinema combatte, pensa, per redimere la realtà, e siccome questa è nascosta sotto immagini autonome come un germoglio sotto chili di cemento che prova timidamente a farsi spazio per crepare la superficie (come ricorda una piccola piantina all’inizio del film), lavora per decostruire, per spaccare quelle stesse immagini che sono considerate realtà con il medium specifico del cinema.

Jude apre il film con il video porno che occupa tutta l’estensione occupabile e non è quindi re-inquadrato, a dire di un’indistinzione tra mondo vissuto e mondo mediatizzato; poi consapevole, di fronte al panorama urbano vissuto per punti di vista digitali e costruito in virtù di essi (si pensi alle immagini pubblicitarie), che il punto di vista della rappresentazione è indifferente, il regista riprende collocandosi in punti qualsiasi, lasciandosi vedere dalle persone, lasciandosi anche insultare, rivelando la presenza della macchina da presa. Segue in città la professoressa, nella prima parte della sua tesi sulla distorsione, in una posizione documentaria trasparente, senza mettere in forma prospettive significanti, in modo da suggerire che questa realtà sia una linea facilmente comprensibile e che in essa non ci sia niente di distorto; poi però riconosce che questa linea (la chicane cittadina ma anche psicologica della protagonista tra palazzi e caratteri) è continuamente interrotta, resa discontinua da incontri assurdi con personalità chiaramente irrazionali, inquinata dal liquefarsi di insulti, gesti dementi e malignità, e quindi compromessa, solo fintamente lineare. Questo panorama apparentemente semplice è un teatro dell’assurdo non più strettamente reale, un labirinto senza più accordo, un continuo non trovarsi, un continuo litigio (cosa sono oggi i luoghi, i media, se non spazi di scontro?) frutto dell’assenza di cornici e di parole chiavi comuni, di referenti reali su cui concordare.

La seconda parte ragiona quindi su alcune definizioni, reinterpretandole liberamente; è la parte composta da materiale d’archivio, naturale antitesi di una prima parte dissolta nell’apparente assenza di costrutto formale. Alla distorsione travestita da linearità della prima risponde la linearità (razionale) travestita da distorsione: perché l’apparente vena scherzosa e assurda, giocosa, con cui Jude reinterpreta alcune parole o eventi sembra una esagerazione delle cose reali, ma è invece un discorso razionale sul materiale audiovisivo che costituisce il campo, l’ambiente di vita. Risemantizzando le immagini con nuove didascalie che modificano la definizione richiamata usualmente dalle immagini, Jude si posiziona in una dimensione esponenziale sopraelevata (anche se si tratta di un inabissamento nel linguaggio) da cui ri-monta il montaggio con cui l’ideologia da significato alle cose. Le immagini che, con la forza dell’invisibilità, soffocano e hanno soffocato la realtà (perché il materiale d’archivio utilizzato riguarda i regimi di Antonescu e Ceausescu ma anche la Romania contemporanea) sono mostrate per ciò che sono, come se una mano chirurgica si fosse mossa all’interno del loro tessuto connettivo per rivelarne la struttura meccanica. Così il panorama mediatizzato della prima parte, frutto dell’artificio ma fatto passare per naturale, è ora messo in prospettiva da una visione distorcente che riconosce la sua natura artificiale, linguistica. Jude ribalta l’immagine con i mezzi del cinema, nel primo caso con la videocamera, nel secondo con il montaggio, mostrando la forza dell’oggetto filmico come specchio anche di fronte alla complessità di un nemico che si è fatto evanescente fantasma.

Nella terza parte la prospettiva sopraelevata del ri-montaggio agisce sul materiale della prima, ma questo processo avviene negli occhi di chi guarda: di fronte al processo alla professoressa, condotto da genitori e preside della scuola, che stanno decidendo se licenziarla o meno, l’occhio di chi guarda (e non più la telecamera visibile di Jude) assiste allo spettacolo della nebulosa di pregiudizi prodotti da una dimensione di relativismo valoriale alienato dall’umano, senza Storia e senza alterità; una nebulosa che agisce come la realtà distorta del panorama urbano, vestendosi di razionalità locale nel pieno del proprio diritto. Chi guarda questa nebulosa comprende la dimensione della violenza che Emi subisce e questa comprensione è frutto della doppia negazione dello specchio distorcente: la realtà, nella prima parte irrecuperabile perché soffocata dall’immagine che si naturalizza e nella seconda ancora in controluce dalla rivelazione, tramite distorsione, della natura a sua volta distorcente di questo processo di naturalizzazione, nella terza parte si mostra come recuperabile tramite coscienza. Mentre prima la stortura era grafia indistinta, incorporata, secondo i processi del postmoderno, nel discorso quotidiano in quest’ultimo segmento invece è messa tra virgolette, distinguibile perché stagliata: la realtà è lì, malgrado tutto, se si riesce a guardare il mostruoso movimento tentacolare del mostro, anche se questo è diventato così potente da essere indistinto dal mondo. I tre momenti di questo film sono la mossa di educazione estetica che Jude compie a favore della libertà dell’individuo. La lotta che il cinema può compiere e compie è fare spazio per questa libertà, per un pensiero che sia consapevole della distorsione o, come ha scritto lo stesso Kracauer, che abbia il coraggio di guardare il riflesso di Medusa nello scudo.